Il film del weekend: "To the Wonder"

Malick torna con un film che è un quadro impressionista alla cui potenza visiva non corrisponde pari forza comunicativa

Il film del weekend: "To the Wonder"

L'enigmatico regista Terrence Malick, laureato in filosofia ad Harvard e vincitore della palma d'oro a Cannes nel 2011 con "The tree of life", è ora nelle sale con "To the Wonder"; un film dalle intenzioni commoventi, come quella di trascinare lo spettatore alla percezione di immagini, musiche e parole che gli siano d'anelito ad una dimensione spirituale. Il risultato però è discutibile: 112 minuti di flusso di coscienza la cui libertà espressiva estrema finisce col tradursi in una poetica di difficile lettura e il cui estetismo puro oscura la narrazione e il coinvolgimento dello spettatore. E' noto, d'altronde, che Malick abbia un linguaggio personale al punto da sfiorare talvolta l'incomprensibile. Il suo è un cinema che vuole introdurre al mistero dell'esistenza e in cui la trama e i personaggi rimangono a uno stadio embrionale, stilizzato, in modo da recare echi dell'esperienza di tutti. Al pubblico è chiesto semplicemente di lasciarsi andare all'afflato transpersonale cui invita ciò che scorre sullo schermo.

Marina (Olga Kurylenko) e Neil (Ben Affleck), dopo essersi innamorati in Francia, vanno a vivere, insieme alla figlia di lei, in Oklahoma; qui l'idillio inizia a corrompersi, lasciando il posto al deperimento del desiderio e alla perdita dell'armonia di coppia. La ricomparsa di un'amica d'infanzia di Neil (Rachel McAdams) rende ancora più incerta la relazione. Chiedere consigli al prete del luogo, (Javier Bardem), non sarà risolutivo perché egli stesso è preda di una crisi esistenziale che lo fa dubitare della propria fede.

I protagonisti sono ritratti nella stagione sentimentale dell'incanto e in quella successiva del disincanto. Neil è la personificazione dell'analfabetismo emotivo ed è ben reso da Affleck che inespressivo lo è per natura. Marina, dapprima affascinante, diventa piano piano urticante perché rivela la personalità infantile di chi passa la vita a elemosinare amore. Non se la passa meglio il religioso, un uomo senza luce e dallo sguardo vuoto, prigioniero dell'impresa titanica di dissimulare la propria radicata apatia spirituale in empatia cristiana. Ognuno di loro incarna la solitudine atavica dell'essere umano, condannato a un'incomunicabilità ontologica e consolato solo dallo scoprirsi parte di un Tutto che lo ha a cuore. Il film è una carrellata di certezze a pezzi e di preghiere senza risposta; una lunga omelia in cui ci si confronta con quello che è qui definito come "quest'amore che ci ama": il sentimento universale e onnipervadente che si lascia toccare ma non trattenere, perché in perenne movimento come la marea.

Quasi inesistenti i dialoghi; le poche parole pronunciate dai personaggi sono fraseggi interiori, pensieri formulati nella lingua materna di ognuno, forse a ricordarci che le questioni fondamentali dell'esistenza non conoscono latitudine e longitudine.

La lirica fotografia di Emmanuel Lubezki è d'innegabile bellezza; ma non basta a rendere più comunicativa quella che è una meditazione lenta e frammentaria, che si

addentra criptica nel terreno del mistico e dell'inconoscibile perdendo progressivamente d'efficacia. Davvero difficile da consigliare a qualcuno che non sia già "iniziato" all'alpinismo psicologico cui costringe questo regista.

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