Viviamo in un'epoca di paure mostruose, iniziate poco dopo la Prima guerra mondiale e mai finite? Forse sì, perché negli ultimi cento anni gli umani si sono accorti che il loro grande potere tecnologico non necessariamente porta ai destini magnifici e progressivi promessi dal ballo Excelsior, anzi... Queste paure, di volta in volta belliche, nucleari, transgeniche, pandemiche o da apocalisse ecologiche. Le persone hanno avuto la necessità di metabolizzarle, viverle per finta per poterle anestetizzare o quanto meno oggettivare. E - ecco il punto - non lo hanno fatto dal terapista, lo hanno fatto nelle sale dei cinema. Spesso non a colpi di capolavori immortali ma attraverso filmini a basso budget ma con mostri alti almeno trenta piani. Lo spiega bene un professore di letteratura del Blue Ridge Comunity College della Virginia con la passione per la letteratura: Jason Barr. Nel suo Godzilla e altri Kaiju. Guida ai mostri giganti del cinema (Odoya, pagg. 350, euro 22) mette in fila tutte le più orripilanti creature giganti che hanno devastato i nostri schermi.
Quello di Barr non è un catalogo ad uso di cinefili, se no avrebbe poco senso parlarne: la maggior parte delle persone possono vivere bene anche senza sapere tutto su Il risveglio del dinosauro del 1953 (che pure è un caposaldo della fantascienza). Piuttosto è un'indagine sulla creazione di quello che è un melting pot «mitologico» che unisce Occidente e Oriente, la fantascienza e paure ancestrali, il senso di hybris di chi vede lo strapotere della tecnologia e antiche leggende giapponesi.
In questo senso la parola chiave è proprio «Kaiju». È di origine giapponese e fonde un'antica mitologia di mostri tipici della terra del Sol Levante con un filone di film occidentali che partono da King Kong (1933). L'idea venne al regista Merian C. Cooper dopo aver saputo che una spedizione era tornata da un'isola remota portando in America la lucertola più grande del mondo (per noi l'ormai molto noioso Varano di Comodo...). La sua mente cinematografica iniziò a galoppare sostituendo al lucertolone un più esotico gorilla gigante. Il resto lo fece un geniale artigiano del cinema, Willis O'Brien, con plastici perfetti e un pupazzo articolato alto circa 45 centimetri, con uno scheletro di acciaio ricoperto di lattice e pelliccia di coniglio (per le riprese in primo piano furono utilizzati anche numerosi accessori a grandezza naturale, come una mano articolata lunga 2,50 metri). Ma la differenza lo fece il pubblico mondiale: era pronto ad aver paura. A vedere la natura che si ribellava contro l'uomo, pronto a mettere piede dove piede non va messo.
Senza contare tutti gli altri sottintesi psicologici di una trama per il resto ridicolmente fragile, seppur efficacissima. Era nato un canovaccio che sarebbe stato reinventato per tutto il Novecento e oltre. Con in più il tocco giapponese. Ed ecco Godzilla (1954). I giapponesi avevano già scopiazzato King Kong negli anni Trenta. Ma dopo la sconfitta della Seconda guerra mondiale e le devastazioni atomiche le loro paure erano cambiate. Il regista Honda Hishiro trovò la loro rappresentazione perfetta in un mostro a forma di dinosauro modificato dalle radiazioni.
Il mostro riprendeva la tradizione giapponese degli «Yokai» ma vi univa le caratteristiche del gigantismo di King Kong e paure più moderne. Paure che si sono evolute nel tempo ma senza mai scomparire. Basti pensare al successo recente di un film come Cloverfield, moster movie del 2008 diretto da Matt Reeves...
Ce n'è abbastanza perché Barr dedichi le ultime pagine del libro ai «Kaiju» del futuro.
Qualche anno fa quel del mostro poteva sembrare un cliché un po' vecchio e un po' fragile. Ora torna invece ad essere sempre più popolare e arrivano nuovi super mostri come quelli di Pacific Rim. Forse perché - come spiega Barr - le paure della modernità cambiano ma non diminuiscono. Anzi.
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