Poi a un certo punto prende fiato e dice: «Alla fine il mio nome è riuscito a resistere al cognome». Cristiano De André arriva per la quarta volta al Festival di Sanremo (la prima nel 1985) e i suoi due brani sono di rara intensità perché non durano solo tre minuti e mezzo ma cinquantun anni come i suoi. Invisibili. Il cielo è vuoto. Autobiografici per un figlio d'arte come lui ma anche per una intera generazione. Forse è una tappa decisiva, diciamo inevitabile, nella storia irruente e maudit di un talento forsennato che, come il Sisifo di Camus, ha dovuto fare i conti con il proprio supplizio quasi a dimostrare che «non c'è amore del vivere senza disperazione di vivere».
Bentornato Cristiano De André, il suo ultimo Festival nel 2003 è rimasto tra parentesi.
«Stavolta non arrivo con la bandiera bianca, arrivo con una carriera consolidata e un pubblico che cerca Cristiano».
Due brani. Uno più duro dell'altro.
«Invisibili eravamo noi, i ragazzi di diciotto o venti anni tra la fine dei '70 e l'inizio degli '80, in mezzo allo scontro sociale, alle contrapposizioni ideologiche e alla lotta di classe».
Sì ma perché invisibili?
«Era la Genova dell'eroina, arrivata di prepotenza a incunearsi negli sfasci familiari. Per molti l'eroina era una specie di mamma ideale e consolatoria, non era solo il fascino del proibito o il gusto del vizio».
Lei l'ha conosciuta?
«Diciamo che non mi sono fatto mancare nulla. Ma per fortuna io avevo due genitori aperti con i quali potevo ragionare e discutere anche di argomenti complessi. Altri miei amici no. E poi avevo la fortuna decisiva».
Quale?
«La passione. Facevo il Conservatorio. È stata la mia salvezza. Perché se sei senza alternative, di fronte all'eroina non hai scampo. E infatti questa canzone è dedicata a un mio amico che ci ha rimesso le piume per una overdose».
C'è un verso quasi tremendo: «La mia incudine era un cognome inesorabile».
«Io ero riconosciuto solo come il figlio di De André. La gente parlava con me solo per quel motivo, mi valutava o mi stimava solo in funzione di quello. Ho lottato, ho studiato. Poi l'ho detto a mio padre: Papà, sono finalmente riuscito a trovare un rifugio a Cristiano. Allora mi ha portato in tour, mi ha fatto suonare tanti strumenti che fino a quel momento aveva suonato un maestro come Mauro Pagani e il nostro rapporto è cambiato. Se ci fosse ancora, probabilmente avremmo scritto canzoni insieme. Da amici. Purtroppo è mancato quando l'avevo conquistato. E la mia vita è andata per un'altra strada».
Ora perché canta che Il cielo è vuoto?
«Perché noi di quella generazione siamo finiti ad accettare quello che allora combattevamo. Mi sento di vivere in un nuovo Medioevo, siamo tutti più soli, più incazzati».
Dovesse trovare uno slogan per questi anni?
«Anni di paura o poco coraggio. Ed è un momento in cui bisogna trovare la forza di andare a riprenderci l'anima».
Quali altri sforzi ha fatto dopo essersi in qualche modo «liberato» dall'incudine?
«Ad esempio ho smesso di fumare. Fumavo quasi tre pacchetti al giorno. Adesso ho preso quasi venti chili ma va bene così. Non voglio più dipendere da niente e da nessuno. Ci ho impiegato tanto e tanto tempo ma alla fine ce l'ho fatta».
Anche dalla tv si è liberato. O quasi. La si vede pochissimo.
«Vado soltanto dove mi sento a mio agio, quindi quasi da nessuna parte».
Sanremo è anche tv.
«Sono già emozionato».
Nella serata del venerdì canterà un brano di suo padre, Verranno a chiederti del nostro amore.
«È un omaggio a lui, naturalmente. Ma anche a mia mamma. Mi ricordo bene quando l'ho ascoltata per la prima volta. Erano le cinque del mattino, avrò avuto dieci anni, e ho visto mio papà cantarla in salotto a mia mamma. Penserò a questo quando la interpreterò all'Ariston».
Dopo il Festival ritornerà a fare concerti?
«Non dopo il Festival. Ma dopo i mondiali, nella tarda estate. Riparto in tour dopo quello dell'anno scorso che è andato molto bene. Però mica faccio solo quello. Sono un cinquantenne impegnato, mica un pensionato».
Ad esempio?
«Ho scritto la sceneggiatura di un film, del quale preferisco non parlare.
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