Sono stati le due luci più sfolgoranti dell'Illuminismo scozzese, e due dei filosofi che più hanno influenzato il modo di vivere e di pensare del mondo contemporaneo. David Hume e Adam Smith, lo scettico radicale e il «progenitore filosofico» del capitalismo, erano anche amici, anzi, amicissimi. E questa amicizia è legata in modo stretto alla loro filosofia, come racconta Dennis C. Rasmussen in un saggio bellissimo, Il miscredente e il professore, che uscirà martedì 19 maggio per Einaudi (pagg. 352, euro 30).
Professor Rasmussen, Hume e Smith si incontrarono per la prima volta nel 1749. Come andò?
«Purtroppo sappiamo pochissimo di quel primo incontro; in realtà, non siamo nemmeno sicuri sia avvenuto nel 1749. È la mia ipotesi. Sappiamo che Smith, che era più giovane di dodici anni, conosceva già le opere di Hume ed era molto interessato alle sue idee; e poi avevano molti amici in comune, che avrebbero potuto organizzare un incontro mentre si trovavano nella stessa città nello stesso momento, il che successe, per la prima volta, nella Edimburgo dell'autunno del 1749».
Che tipi erano, Hume e Smith?
«Hume era molto più socievole e amante della compagnia, mentre Smith era più riservato, perso nei propri pensieri, anche se non era sempre così».
La loro era solo un'amicizia intellettuale o una amicizia «vera»?
«A giudicare dalle loro lettere, direi che la loro cominciò come una amicizia intellettuale, ma rapidamente divenne un'amicizia vera, personale; il che, da un certo punto di vista, è sorprendente, dato il poco tempo che trascorsero insieme. Eppure ciascuno considerava l'altro come l'amico più caro».
Perché la loro è una delle «massime» amicizie filosofiche?
«È una delle pochissime amicizie vere tra filosofi di primo piano, ovvero un'amicizia fra pari, e non una relazione fra maestro e allievo come quella fra Socrate e Platone, o fra Platone e Aristotele. I rivali più stretti sono solo Erasmo e Tommaso Moro».
Nella loro filosofia l'amicizia rivestiva un ruolo particolare?
«Entrambi la consideravano una delle componenti chiave di una vita bella e felice. Hume scrisse che l'amicizia è la gioia principale della vita umana, e Smith che la stima e l'affetto da parte dei propri amici costituiscono la parte principale della felicità umana».
Come si influenzarono?
«L'influenza è stata per lo più a senso unico: Hume aveva già pubblicato quasi tutte le sue opere filosofiche prima che Smith cominciasse a pubblicare le sue, quindi Hume ebbe molto più impatto su Smith, che Smith su Hume. Direi che l'influenza di Hume è presente, virtualmente, in tutto ciò che Smith ha scritto».
Insieme sferrarono un attacco totale contro le idee, le credenze e il sistema commerciale del loro Paese, la Gran Bretagna.
«Sì, erano schierati insieme nella difesa del libero commercio, in contrapposizione alle politiche mercantilistiche. Hume iniziò a criticare queste politiche prima di Smith, anche se poi le critiche di Smith furono molto più estese e sistematiche, il che lo rese più influente».
Anche le loro idee politiche erano simili?
«Entrambi abbracciarono gli ideali liberali come la rule of law, i limiti al governo, la tolleranza religiosa, la libertà di espressione, la proprietà privata e il commercio. E diffidavano delle innovazioni totali e improvvise in politica: pensavano che il cambiamento andasse realizzato in modo graduale».
La storia della filosofia è piena di invidie tra filosofi, invece loro addirittura si sostenevano a vicenda...
«È vero. Sembra piuttosto notevole che si sostenessero così, e fossero così felici dei rispettivi successi. Di sicuro, l'esempio più importante è la lettera pubblica in cui Smith raccontò la storia della morte serena e coraggiosa di Hume e lo dipinse come un modello di virtù. Data la fama dello scetticismo religioso di Hume, la lettera causò un putiferio. In seguito, Smith disse che gli aveva procurato dieci volte le ingiurie ricevute per il violento attacco che avevo sferrato all'intero sistema commerciale britannico, intendendo, ovviamente, La ricchezza delle nazioni».
I due avevano atteggiamenti molto diversi nei confronti della religione. Perché è così importante?
«Hume era piuttosto schietto sul proprio scetticismo religioso, era quello che oggi chiameremmo un agnostico. Invece Smith cercava di evitare di rivelare troppo delle proprie credenze religiose, o della mancanza di esse. Credo che le visioni religiose di Smith fossero più vicine a quelle di Hume, cioè più scettiche, di quanto si creda solitamente, ma questo è uno dei punti più controversi del libro... Il loro atteggiamento pubblico verso la religione determinò la loro considerazione da parte dei contemporanei ed è anche un tema costante nella loro amicizia».
Eppure, alla morte di Hume, con la Lettera da Adam Smith a William Strahan, che ha citato, Smith finisce sotto attacco. Dopo tanta cautela, non è ironico?
«Sì, fu una mossa sorprendente. Aveva passato la vita a svicolare il confronto con i religiosi, fra l'altro rifiutando di pubblicare, postumi, i Dialoghi sulla religione naturale di Hume ma, alla fine, con una giravolta pubblicò la Lettera, che celebrava la morte non religiosa di Hume, finendo in guai di ogni tipo. È difficile non considerarlo un gesto finale di vera amicizia, da parte sua».
Prima di morire, Hume tenne una cena d'addio con gli amici. Era il 4 luglio 1776...
«In effetti è una vera coincidenza, che quell'ultimo incontro sia avvenuto il giorno della Dichiarazione d'indipendenza degli Stati Uniti. Di quella cena, abbiamo una citazione strepitosa di Hume. Smith lamentava, forse perché il suo migliore amico stava morendo, che il mondo fosse perfido e cattivo di natura, al che Hume gli rispose: No, no. Guarda me, che ho scritto su qualsiasi argomento atto a suscitare ostilità morale, politica e religiosa, eppure non ho nemici; eccetto, ecco, tutti i Whig, i Tory e tutti i cristiani».
Per Hume, il commercio favorisce la virtù: è un'influenza di Smith?
«Non credo, dato che Hume aveva già formulato le sue idee prima che Smith pubblicasse il suo primo libro, La teoria dei sentimenti morali, nel 1759. Però entrambi credevano che, in generale, il commercio fosse una forza verso il bene, moralmente parlando, dato che incoraggia quelle che chiamiamo virtù borghesi: affidabilità, decoro, onestà, prudenza, e simili».
Lo scetticismo radicale di Hume non è nichilismo, ed è questo a renderlo così affascinante, anche oggi.
«È così, si tende a ritenere che lo scetticismo conduca al nichilismo e alla paralisi, ma Hume argomenta, direi in modo persuasivo, che possa anche portare a numerose virtù importanti, fra cui la curiosità intellettuale, l'umiltà e la demolizione del dogmatismo».
Sono stati, Hume e Smith, i filosofi della libertà?
«Direi che sono stati i filosofi della libertà.
Hanno attribuito grande valore alla libertà e volevano promuoverla, ma non nel senso che la considerassero l'unico bene umano, o che credessero che dovesse essere amplificata fino ad escludere tutti gli altri beni, come sicurezza, prosperità, virtù, felicità e così via. Erano più dei pragmatisti che degli ideologi».
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