Il 21esimo secolo ha per protagonista una nuova ideologia: la tecnologia. La tecnologia è una sfida rivoluzionaria destinata a cambiare la nostra vita esattamente come è avvenuto nell'800 e nel '900. L'invenzione del treno fu un grande sovvertimento, l'arrivo della macchina fu una grande rivoluzione, adesso siamo alla vigilia di innovazioni superiori a quelle che la nostra immaginazione può tentare di descrivere. Uno degli aspetti che distinguono la rivoluzione tecnologica è la realtà digitale. Ovvero il trasferimento della conoscenza e della vita degli individui dalla realtà reale al mondo di internet. I social network sono la più importante e vitale forma di aggregazione. Barack Obama nel 2008, per sua stessa ammissione, non avrebbe vinto la sfida elettorale se non avesse avuto un formidabile team di gestione dei social network. Lui riuscì a mobilitare 18 milioni di giovani per fare la differenza contro lo sfidante, aggregando le persone su Facebook. Ovviamente quando Trump ha conquistato la Casa Bianca a colpi di tweet, allora The Donald ha vinto grazie alle «fake news».
Facebook conta oramai più di un miliardo di adesioni sull'intero pianeta e dunque abbiamo una collettività autonoma transnazionale che risponde ad un proprio linguaggio e sfugge ad ogni altro tipo di regole. L'invenzione di Zuckerberg ha prodotto e generato tutta una tipologia di comportamenti che si attivano in altri social network. App come Instagram ci consentono di entrare a far parte di una comunità geograficamente locale e globale, che riunisce fotografi amatoriali intenti a scattare, condividere e commentare immagini catturate via smartphone e condividerle su numerosi altri servizi social. L'applicazione, sviluppata da Kevin Systrom e Mike Krieger, è stata lanciata il 6 ottobre 2010, oggi conta 600 milioni di utenti attivi mensilmente, preceduta da Facebook e Youtube. Instagram è diventato il social più nuovo e interessante perché ha instaurato un nuovo linguaggio globale che ha preso il sopravvento sulla parola scritta. Grazie a Instagram, «io scrivo foto».
Mentre la letteratura isola, la televisione esclude, il cinema rende passivo lo spettatore, la fotografia digitale include. Mi attiva perché è condivisibile in tempo reale con il mondo intero. Perché la velocità della tecnologia deride la lentezza di un sms, di un tweet, di un testo. Instagram ci fornisce una filosofia di salvezza. La realtà come volontà e rappresentazione fotografica. La fotografia postata su Instagram non consiste nel vedere ma nel trovarsi là. Non siamo noi che prendiamo le fotografie, sono le fotografie che prendono noi. Una fotografia significa il massimo di una situazione e il massimo di se stessi. Quando si scatta una foto non si pensa mai: prima fotografare, poi guardare. E pubblicare una propria foto privata diventa un pensiero visivo per catturare l'attenzione, e l'attenzione è potere. «Mi vedo vedermi. Siamo degli esseri guardati nello spettacolo del mondo» (sentenziava lungimirante Lacan).
Fatta fuori l'ingombrante macchina fotografica, la foto - prima arte democratica della storia - si è reinventata come semplice applicazione di quel supermedium tascabile che è lo smartphone. La fotografia condivisa su Instagram costruisce interi mondi di immagini, simulando quel senso di intimità che Facebook o Twitter non saranno mai in grado di offrire. Ti fa sentire parte di qualcosa - un evento, una situazione, una storia. Immagini poi che sono facilmente manipolabili per mezzo di filtri speciali ed estetiche vintage, perché la fotografia è il medium che meglio di ogni altro ci consente di appropriarci del mondo e, nel contempo, come ci ricorda Susan Sontag: «I fotografi impongono sempre i loro standard alle cose che fotografano».
Non dimentichiamo che l'avvento del web e la diffusione delle prime macchine fotografiche digitali è praticamente simultaneo. La loro evoluzione va di pari passo e oggi Facebook è il più grande contenitore di immagini digitale del mondo. Le relazioni tra gli utenti sono il frutto di reazioni spontanee all'immagine proposta. Niente di più, niente di meno. Ancora una volta, Susan Sontag è stata profetica: «La fotografia è diventata uno degli strumenti principali per sperimentare qualcosa, per creare un'apparenza di partecipazione». Le fa eco Roland Barthes, che nel 1980 scriveva: «Nell'era della fotografia assistiamo all'esplosione del privato nel pubblico, o meglio, alla creazione di quella nuova valuta sociale che è la pubblicizzazione del privato». Ogni foto, una storia. L'album della mia storia. Il diario della mia vita. Un modo di annotare il passaggio di cose e di emozioni. Mi serve una memoria istantanea, una specie di protesi dello sguardo, una pubblicità immediata di me stesso che spieghi agli altri non ciò che sono ma ciò che vorrei essere. Da una parte, lo striptease dell'intimo. Dall'altra, entra in ballo il voyeurismo. E tale del resto è qualunque esercizio fotografico. Il desiderio di essere visto è altrettanto primitivo quanto quello di guardare. Medesimo il desiderio che lo sospinge: violare il codice dell'intimità, in modo spettacolare o passivo, privato o pubblico. Come una calamita, la vista dell'altro e del suo mondo segreto ci rende infatti al tempo stesso spettatori e ostaggi. Perché ciò che vediamo negli altri è quanto possiamo scoprire in noi.
Partendo da questa tesi, entra in ballo l'aspetto più disturbante: la nostra identità digitale. In un mondo globalizzato che non dà lavoro né assicura benessere, i Millenials devono fare affidamento sul proprio marchio. La loro identità è micro, perché raramente arriva in superficie, ma vive nei capillari di social media, reality, talent. Si tratta di un'esperienza interiore di sé, piuttosto che dello stato oggettivo di essere famoso. Instagram rende possibile poi una forma particolare di voyeurismo: ci fa vivere, in forma vicaria, le scoperte di fotografi amatoriali che non abbiamo mai incontrato nella vita reale ma che sogniamo di conoscere: la fashion designer di New York, lo skateboarder di Los Angeles, lo scrittore di New York, il geniale programmatore della Silicon Valley. Ma anche di vedere con occhi diversi la realtà di tutti i giorni, quella che tendiamo a ignorare o a dare per scontata: il barbone che dorme avvolto nei giornali, la gente in coda per salire sul bus, il gestore del drugstore messicano. Instagram mi spinge a guardare meglio, a guardare di più. A guardare sempre. A tenere gli occhi aperti. Lo smartphone è il mio terzo occhio.
Se l'invenzione della fotografia è stata il preludio dell'arte moderna, la smaterializzazione dell'immagine - la trasmigrazione dalla carta al display - è diventata l'arte di costruire il proprio brand, il proprio marchio personale. Io sono di fatto presidente, amministratore delegato e responsabile marketing dell'azienda chiamata Io Spa. Se non trovi un selfie in un profilo, senti di non poterti fidare di quella persona, la cui rappresentazione sociale non può più, ormai, non passare per la rete in formato immagine. Foto dopo foto, arriviamo al punto centrale. Nessuno è soddisfatto di se stesso. Perfino i nostri antenati greci, che hanno inventato praticamente tutto, dalla politica alla letteratura, dall'arte allo sport, hanno sentito la necessità di inventarsi e nutrirsi di un mitologico mondo parallelo affollato da Marte e Giove, Venere e Mercurio per lenire la propria insoddisfazione. E l'enorme successo di Internet in qualsiasi classe sociale, dai poveri ai ricchi, ha origine dalla sua capacità, attraverso i social network, di creare un mondo parallelo a quello reale. Lo sappiamo bene di essere fatti male: la felicità dipende dalle nostre aspettative e non dalle effettive condizioni in cui viviamo. Quindi, nonostante i miglioramenti enormi di quest'ultime, l'insoddisfazione è sempre la stessa. La normale reazione umana al piacere non è soddisfazione, ma ulteriore ricerca del piacere. Ecco perché il genere umano sa conquistare il mondo, accumulare immenso potere, ma poi non riesce mai a trasformarlo in felicità. Nel XXI secolo, con i progressi della scienza e della tecnica, potremo diventare dèi. Ma saremo sempre dèi infelici.
Tutti amano la Rete perché è diventata un sollievo a tale angoscia che nessuna ideologia è riuscita a cancellare, un'invenzione strepitosa che ha messo in tasca a ciascuno di noi un megafono che molti hanno cominciato ad usare come pensiero visivo. Questo porta ad una socializzazione degli individui che secondo alcuni studiosi del comportamento presenta molti rischi. Soprattutto sul piano dello sviluppo delle identità. Completamente scollegate dalla realtà. Ovvero, uno pensa di essere qualcosa solo e solamente perché il social network ci rappresenta in quella maniera. Ora, tutto ciò ha il suo rovescio della vestaglia. Noi viviamo in una grande stagione di proteste e appena può la gente va a votare e vota contro, chiunque sia e chiunque rappresenti l'establishment, ma nelle università non ci sono più movimenti di protesta, i sindacati si sono indeboliti, ogni tipo di associazionismo è in calo. Come è possibile che non ci siano cortei di protesta nelle grandi città dell'Occidente se viviamo la stagione della protesta? Perché la protesta si è trasferita da forma aggregata associata nella realtà reale, in forme di amici o gruppi, di follower sui social network. Per la gioia dei boss della Silicon Valley che si possono permettere di pontificare sulla democrazia del clic e allo stesso tempo di non pagare tasse.
Conosciamo tutti bene il rito di chi al ristorante fotografa i vari piatti e ne pubblica le immagini online. Le foto della cotoletta e della carbonara che rendiamo pubbliche sono anche un modo per creare un'immagine di noi stessi. Il nostro piatto è una sorta di alter ego, di avatar; una forma indiretta di selfie. I selfie sono in genere considerati una manifestazione di vanagloria strettamente collegata alla fine della civiltà, ma io non credo che siano poi così male. In un mondo di 7,7 miliardi di esseri umani, di cui tre miliardi sono ormai online, sviluppare un senso di sé autentico è molto più difficile di quanto non fosse prima - diciamo nel 2000. Molte persone ora hanno un blog, ma una volta, quando i numeri erano più piccoli, averne uno di successo era una possibilità concreta. Ora come ora, i blog non hanno più chance.
Come si collocano i selfie in questa nuova ecologia sociale? I selfie sono tentativi, più o meno riusciti, di creare un autentico senso di sé al cospetto del vortice di informazioni che cresce a ritmi esponenziali e in cui essere un individuo autonomo, con una vita particolare, sta diventando sempre più difficile. Tranquilli, nel 2050 gli smartphone saranno parte di noi. La nostra attività cardiaca e cerebrale sarà monitorata ventiquattro ore su ventiquattro e questi computer nel nostro corpo sapranno analizzare anche i nostri desideri e preferenze.
Per esempio, riconosceranno se un passante ci attira sessualmente misurando battito cardiaco e pressione del sangue e si connetteranno al computer della persona che ci eccita per farci conoscere. Entro il 2100 umani e macchine potrebbero diventare una cosa sola.Aveva ragione Albert Einstein: «Non penso mai al futuro. Arriva così presto».
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