I versi di Azzalin raccontano la sacralità di tutte le semine

Angelo Crespi

Ho conosciuto Dino Azzalin quando ero un ragazzo, durante un incontro di poeti che si teneva nella sua cascina, sul lago di Varese. Era un rito ritrovarsi, ogni anno, i primi di agosto per leggere poesie. Ricordo una volta Zanzotto, suo maestro, seduto nel prato. Tutti noi cercavamo maestri e la poesia era una forma di resistenza e di comunità. Non so se il rito si ripeta. Mal nel mentre, passati molti anni, decenni, Azzalin è diventato a sua volta un maestro. E lo dimostra, dopo un lungo silenzio, con una raccolta Il pensiero della semina (Crocetti editore), in cui la sua voce si fa matura e stilla alcuni versi memorabili. È come se avesse colto il meglio di quel sentimento lirico che passa dall'ultimo Montale, bordeggia i lacustri come Sereni, occhieggia ovviamente alla linea lombarda ma anche ai quasi coetanei come Viviani e Santagostini, in una dimensione anti retorica che però trae dal quotidiano minuto l'universale delle cose, e poi, dimenticandosi di tutto quanto, fosse riuscito a trovare un metro a sé confacente, una sporta di parole, una serie di costruzioni, uno stile personale e forte.

La «semina» è dunque un sentimento religioso per cui «i semi/ fanno lunghi viaggi e s'infilano tra le spighe/»; e ognuno di loro germinò «chi in frumento, in arbusto, in trifoglio./ Chi nell'Altrove o in un caso, ma/ ciascuno secondo la sua specie./»; per cui anche un figlio è un seme e «Dio mio, fa' che non finisca, che cresca,/ che non sia preda del vento o delle ortiche,/ che non marcisca, questo seme caduto/ in una notte d'amore nel tepore di giugno/»; per cui i papaveri «conoscono sul nascere il loro destino./ E pure scoppiano di vita e contentezze./ Forse li eccita il sapersi preda del sole,/ se la falce è la stessa dell'estate che non dura/ piú dei raggi, che li percorre nel solstizio,/ di una notte soltanto/». Un sentimento religioso così denso per cui il poeta, attraverso la lingua, si fa veggente e anche se «...

nessuno sa veramente/ a cosa serva la poesia, eppure a primavera i giardini/ si vestono di foglie e le gemme a legno scrivono sillabe/ sui fogli e ancora fiori...» e così si compie il miracolo della rivelazione, il miracolo che non è oscurità semmai chiarità, perché «Là si vedeva tutto/ quello che la luce/ nascondeva».

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