Marin Alsop (1956) è la numero uno fra le direttrici d'orchestra. Donna di silenzi e di fatti, non ha mai fatto mistero della propria omosessualità evitando al contempo di farne un cavallo di battaglia. È stata l'ultima nonché prediletta allieva di Leonard Bernstein, il direttore-leggenda che il 25 agosto avrebbe compiuto 100 anni. Ha un incarico stabile a Baltimora, a San Paolo e presto a Vienna. Il 4 settembre torna alla Scala con la Royal Philharmonic Orchestra per inaugurare il festival Mito.
Chiediamo a lei che è donna, tra l'altro proveniente dal Paese che ha lanciato la campagna #MeToo, un'opinione sui licenziamenti di colleghi per questo problema.
«Mi sento molto triste per le persone coinvolte, per chi ha fatto e per chi ha subito. Non conosco però i dettagli di ciascuna delle singole situazioni per poter dire di più».
Ha mai firmato contratti che contemplassero anche un codice di comportamento?
«Io no, però so di alcune orchestre che, proprio come in certe aziende, specificano codici comportamentali. Per me è cosa scontata e naturale attenersi a un'etica di lavoro».
Dati gli accadimenti, prevede novità in tal senso nel mondo delle orchestre?
«Penso che la corretta gestione delle relazioni interpersonali diventerà un tema sempre più prominente. Aldilà dell'aspetto legato alla sfera sessuale, ci vuole tatto nei rapporti interpersonali».
Un tempo i direttori d'orchestra insultavano i musicisti, lanciavano bacchette. Oggi la gestione della leadership richiede cautela su tutti i fronti...
«Le orchestre sono cambiate, vige la democrazia, non si tollera l'autoritarismo ma si ricerca il dialogo. Sono costituite da professori estremamente esperti nel proprio campo, professionisti con un certo grado di autostima: altrimenti non avrebbero conquistato leggii così ambiti. La parte difficile per noi direttori sta proprio nella gestione della comunicazione: nel come, cosa e quando dire una cosa. Un delicato gioco d'equilibri».
Approcci che cambiano anche a seconda della cultura di un Paese.
«Senza dubbio. E l'esperienza aiuta a intuire l'anima delle diverse orchestre e a entrare in empatia».
Trova che in 30 anni di carriera siano cambiate le dinamiche fra donne direttrici e orchestrali?
«Non ho mai incontrato resistenze per il mio essere donna. E comunque, ho sempre visto nel rifiuto un'opportunità per migliorarmi, per lavorare ancora più sodo. Accettare il ruolo di vittima impotente può diventare una profezia che si avvera».
Lei è stata l'ultima allieva di Bernstein. Un ricordo di Bernstein uomo e artista.
«Era generoso, magnetico, affascinante, e molto molto esigente. Con una forte attitudine per il sociale. Sono storiche le sue lettere ai giornali».
Il suggerimento più prezioso di questo mentore?
«La consapevolezza che noi direttori siamo solo ambasciatori del compositore: che viene prima di tutto e di tutti».
Bernstein era uomo d'eccessi, con una vita privata controversa. In questa fase di neo-puritanesimo sarebbe stato inondato da una pioggia di critiche.
«...che non mancarono neppure allora. Critiche su tutti i fronti. Ma lui è sempre stato se stesso, non ha mai cercato di essere qualcun altro. Questa era la sua forza».
Anche lei è mentore di direttrici donne (ha fondato il Taki Concordia Conducting Fellowship). Il classico consiglio che dà?
«Essere sicure della passione per questo mestiere: è duro, chiede tanti sacrifici e talvolta scoraggia. Bisogna essere fermamente convinte».
A proposito di scoraggiamenti. Le è mai capitato di voler mollare tutto?
«Però cambiando idea l'indomani. La fase più difficile per un direttore è la partenza. È difficile trovare opportunità, avere orchestre a disposizione».
Fra i nuovi talenti chi segnala?
«Valentina Peleggi. Non la menziono perché è italiana, ma perché è proprio in gamba».
Chi ama
fra direttori italiani?«In questi giorni sono al Ravinia Festival con la Chicago Symphony. Quindi penso a Riccardo Muti: sta lasciando una traccia fortissima su questa orchestra, ne parlano tutti con entusiasmo».
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