Italiani pochi ma buoni in un "mondo magico" fatto di sacralità e natura

Imitazioni di Cristo e riti sciamanici nelle opere dei tre autori scelti dalla curatrice Alemani

Italiani pochi ma buoni in un "mondo magico" fatto di sacralità e natura

Sono arrivato alla Biennale di Venezia, nel Padiglione Italia, prevenuto. Ancora non mi sembra giusto che la quantità e la varietà, pur discutibili, degli artisti che lavorano alacremente in ogni punto d'Italia, meritasse di essere mortificata dalla sempre capricciosa e arbitraria volontà di un curatore di non testimoniare novità e ricerche, o il giusto momento di affermazione degli artisti più meritevoli, ma la proposta di soli tre artisti, a dimostrazione di una tesi o di un teorema.

È esattamente il caso di Cecilia Alemani che ha scelto il tema «il mondo magico», ispirandosi al grande antropologo Ernesto de Martino, e invitando nel Padiglione Itala solo tre artisti.

Io ne ho ospitati, come clandestini accolti dai barconi dei profughi, più di trecento, evocando trecento segnalatori, tra i più sottili uomini di pensiero europei, e non solo, da Marc Fumaroli a Wim Wenders, da Claudio Magris a Hanif Kurehishi, da Dario Fo a Tahar Ben Jelloun.

Meno lucidi e meno credibili di Cecilia Alemani? Non pago, approfittando del centocinquantesimo dell'Unita d'Italia, istituii padiglioni Italia satelliti in ogni regione, verificando quantità e qualità della creatività degli ultimi dieci anni, fino a rappresentare quattromila artisti. E aggiunsi anche un padiglione delle Accademie di Belle Arti. In sostanza, rinunciai al mio ruolo di critico per portare dentro il recinto sacro della biennale un cavallo di Troia pieno di artisti, da Gaetano Pesce a Wainer Vaccari. Uno schema eversivo, se è vero che nella tradizione sacerdotale dei curatori indipendenti, il padiglione Italia è stato riaperto nel 2007 con due soli artisti, segnalati dalla curatrice Ida Giannelli: Giuseppe Penone e Francesco Vezzoli (con un piccolo corteo di cuochi).

Io reagii; ma non rivendico il merito di un metodo contro un altro. Al modello di dieci anni fa si ritorna ora con Cecilia Alemani che propone Roberto Cuoghi, Adelita Husni-Bey e Giorgio Andreotta Calò, per inseguire miti e riti del «mondo magico».

Dal Padiglione Italia ho cominciato la mia visita alla Biennale, e devo riconoscere che il risultato è stimolante, notevole, e nella sua parte terminale, autenticamente magico.

La Alemani ha interpretato il suo ruolo come quello di una sacerdotessa celebrante i riti della vita e della morte; e,nel vasto spazio della prima aula del Padiglione Italia, ha messo in scena una rappresentazione religiosa per stazioni, in un ideale sacro monte con il tema dominante della crocifissione e il corpo di Cristo aggredito da muffe, in una macabra consumazione della materia come di corpi in decomposizione. Il risultato è la duplicazione della vita nella morte in un percorso tragico che Cuoghi, con formidabile intensità, definisce: Imitazione di Cristo. E nel catalogo è riprodotto il testo di Thomas da Kempis la cui conclusione è folgorante: «spurgati quanto prima, sputa fuori il veleno, sii svelto ad assumere il rimedio e ti sentirai meglio che se avessi continuato a rimandare». La «vita della morte» è, propriamente il tema di questa importante impresa di Cuoghi.

Interessante, anche se più didascalica, è la mostra di Adelita Husni-Bey che non vive nel mito ma lo descrive, in una chiave saggistica attraverso la simulazione teatrale. Ecco allora la descrizione della malattia, dei riti sciamanici, della visione animistica della natura; un'illustrazione della magia in alternativa alla scienza; il racconto della figura della strega. Adelita appare piuttosto un'antropologa, ed è proprio lei che ci introduce alla vera e propria chiesa di Giorgio Andreotta Calò.

Un percorso mistico in penombra, fra impalcature e tralicci, come in un'area terremotata e con improvvise apparizioni di crostacei o pipistrelli appollaiati lungo il percorso, che è propriamente ascetico giacché termina in una grande vasca d'acqua, al piano superiore, nella quale si specchiano le travi del soffitto come in una struttura a carena di una cattedrale gotica. Questo lago ha l'acqua immobile come un luogo dell'inferno, con un'intensissima suggestione evocata nel senza titolo voluto da Giorgio Andreotta Calò: La fine del mondo. Da lì si esce a rivedere le stelle, si tocca un paradiso luminoso, il padiglione della Nuova Zelanda dove un pannello animato sembra alludere a un papier peint, con la scoperta da parte degli inglesi di un nuovo mondo.

Poi, di padiglione in padiglione, si arriva alla mostra delle Corderie che si caratterizza come un grande mercatino con molta allegria, a dimostrare la tesi della curatrice generale Christine Macel «Arte /Vita».

Per il momento una impressione indiziaria, non avendo compiuto tutto il percorso fino ai Giardini; ma una singolare considerazione: in tutta la Biennale non c'è un solo dipinto.

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