Keynes e l'idealismo dell'economia creativa

Nella biografia del grande studioso inglese troviamo la storia del '900 scandita dalle differenti dottrine

Keynes e l'idealismo dell'economia creativa

Nel 1944 l'inglese John Maynard Keynes si mise in viaggio per Bretton Woods, negli Stati Uniti. Qui le potenze destinate a uscire vincitrici dalla Seconda guerra mondiale avevano in programma un vertice nel quale delineare i futuri destini economici e politici. Era ormai arrivata l'estate, Keynes era malato di cuore, l'idea di trascorrere anche solo pochi giorni oltreoceano, magari a Washington, era superiore alle sue forze. «Portarci lì a luglio non sarebbe sicuramente un gesto d'amicizia» fece sapere da Londra. Era ancora un mondo senza aria condizionata...

Settecentotrenta delegati, per quattordici delegazioni significava almeno il doppio in termini di personale operativo, senza tener conto di una pletora di giornalisti, almeno cinquecento, di cui si paventava la chiassosità e l'esuberanza alcolica. Scartata la capitale, nonché un resort nello Stato dell'Indiana che non dava garanzie di sicurezza, un senatore del New Hampshire, Charles Toby, che faceva parte della delegazione Usa, suggerì il Mount Washington Hotel, in una remota valle delle Montagne Bianche: chiuso da un paio d'anni, ma a lungo un gioiello della hotellerie made in Usa, aveva 350 camere, mille finestre, duemila porte... In fretta e furia venne riadattato per l'occasione, ma Lidija Lopuchova, l'ex ballerina di Diaghilev che Keynes aveva sposato vent'anni prima, restò inorridita non appena vi mise piede: «I rubinetti perdono tutto il giorno, le finestre non si chiudono né si aprono, i tubi aggiustati si rirompono e non si riesce ad andare da nessuna parte» scrisse alla madre di Maynard.

Ancora bella e sempre comunque russa, Lidija tutte le mattine faceva il bagno nuda nelle acque del vicino fiume Ammonoosuc e quando era il marito a presiedere i lavori ogni tanto entrava nella sala e provvedeva a fargli un massaggio cardiaco. La delegazione russa, che aveva una vasta componente femminile, decise di attestarsi al fianco del Rosebrok Bar: ai primi raggi del sole le «compagne» si mettevano in costume da bagno ed era difficile schiodarle da lì. Alcuni membri della delegazione cinese decisero invece, al secondo giorno, di esplorare i sentieri che dall'albergo portavano alle cime, alte sino a duemila metri. Dopo qualche ora furono visti tornare, sorvegliati a vista da montanari armati: erano stati presi per paracadutisti giapponesi... C'erano poliziotti in servizio all'ingresso, gruppi di boy scout facevano da collegamento fra i congressisti, ogni due per tre una delegazione offriva un rinfresco alcolico per ammorbidire la posizione della delegazione ritenuta contraria... Una sera Keynes e la moglie si ritrovarono a cantare Sul bel Danubio blu agli ospiti della lounge, accompagnati al pianoforte da E.H. Brooks, membro della delegazione britannica.

Al di là del folclore, del caos, dell'improvvisazione e del pressapochismo di molti delegati, Keynes sapeva che Bretton Woods era un'occasione storica, ma che per giungere a un risultato che non fosse fallimentare ci voleva molta pazienza, nonché molta intelligenza. Della seconda ne aveva in abbondanza, della prima molto meno. Per fare un solo esempio delle difficoltà a trovare una linea comune, basterà dire che il segretario della delegazione Usa, Henry Morghentau jr., avrebbe voluto una Germania postbellica agricolo-pastorale, mentre il suo assistente Harry White voleva tirar dentro l'Urss a scapito dell'Inghilterra e l'Urss non ci stava a vedere gli Stati Uniti fare economicamente la parte del leone. Quanto a Keynes, voleva il bancor (la valuta internazionale da lui ideata) al posto del dollaro, detestava il linguaggio tecnico e il legalismo guardingo dei suoi colleghi americani. «Scrivono in cherokee» diceva.

Oltre a essere l'economista più famoso dell'epoca, Keynes aveva un'arma in più rispetto agli altri convegnisti presenti a Bretton Woods. Era l'unico ad aver vissuto in prima persona e da posizione privilegiata le trattative di Versailles con cui si era conclusa la Prima guerra mondiale. Ed era stato il suo libro Le conseguenze economiche della pace a predire che gli accordi finanziari di quel trattato avrebbero portato l'Europa alla rovina economica, alla dittatura, alla guerra.

All'epoca di Versailles, Keynes era un trentacinquenne uomo di mondo, cresciuto a Cambridge, amico di Bertrand Russell come di Ludwig Wittgenstein, esponente di quel «gruppo di Bloomsbury» dove, fra Virginia Woolf e Lytton Strachey, si concentrava il meglio del peggior snobismo made in England: intellettualismo di altissima caratura, promiscuità sessuale tanto disinvolta quanto sofferta (gelosie, pettegolezzi, invidie), classismo mascherato da afflati umanitari, bullismo etico e estetico nei confronti di chi del gruppo non faceva parte, disinteresse per le vili questioni di denaro, dovuto anche al fatto che, in linea di massima, nessuno dei suoi membri doveva veramente guadagnarsi da vivere... Era una sorta di serra artificiale in cui si fioriva stando ben attenti a non contaminarsi con l'esterno, pena l'appassire dei suoi virgulti.

In Il prezzo della pace, la bella quanto particolare biografia che Zachary D. Carter ha dedicato alla vita di Keynes e che ora Neri Pozza pubblica in italiano (pagg. 622, euro 28, traduzione di Leonardo Clausi), l'autore mette bene in chiaro i tanti paradossi che ne accompagnarono l'esistenza: «Un burocrate che aveva sposato una ballerina; un omosessuale il cui più grande amore era una donna; un fedele servitore dell'impero britannico che inveiva contro l'imperialismo; un internazionalista che aveva assemblato l'architettura intellettuale per il moderno Stato-nazione; un economista che mise in discussione i fondamenti dell'economia».

«Particolare biografia» ho scritto prima. Perché in realtà Carter, attraverso Keynes costruisce qualcosa di più e di diverso, un resoconto straordinariamente informato della storia economica del Ventesimo secolo, protezionisti e liberoscambisti, mercatisti e monetaristi, teorici dell'intervento statale e teorici del liberismo senza se e senza ma, su su fino alla finanza globale del nuovo secolo e ai fallimenti economici che lo hanno punteggiato. Una cavalcata complessa per chi magari della materia è un neofita, ma comunque affascinante e al termine della quale viene da dire che così come la guerra è una cosa troppo seria per lasciarla in mano ai generali, lo stesso vale per l'economia e gli economisti...

Tornando a Bretton Woods, sia pure a prezzo di fatiche e di rinunce Keynes riuscì a orchestrare il sistema internazionale, Fondo monetario e Banca mondiale, che da lì sino agli anni Settanta avrebbe tenuto banco. Nel viaggio di ritorno a Washington in treno, Keynes svenne nel vagone ristorante e il successivo trasbordo sul Queen Mary rischiò di trasformarsi in funerale e il piroscafo nella cassa da morto. Testardamente riuscì a morire in patria, nella Pasqua di quello stesso anno, e nel suo necrologio il Times lo definì «il più grande economista dopo Adam Smith».

Per Kynes, scrive Zachary D. Carter, «l'economa era nella migliore delle ipotesi un campo di regole pratiche, tendenze e modelli suscettibili di mutamento». La scuola di pensiero cui diede vita cercava di combinare la spesa statale per lavori pubblici e salute pubblica «con una tassazione distributiva per aumentare le domande dei consumatori, creando nel contempo un ambiente in cui potesse prosperare la grande arte». Credeva che alla fine «le buone idee avrebbero trionfato sulle cattive», il che era ammirevole, ma anche tragicamente ingenuo.

Eppure, conclude Carter, «ci ritroviamo con Keynes, non solo perché i deficit possono consentire una crescita sostenuta o perché il tasso d'interesse è determinato dalla preferenza per la liquidità, ma perché siamo qui, ora, senza un posto dove andare se non il futuro. Nel lungo periodo siamo tutti morti. Ma nel lungo periodo quasi tutto è possibile».

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