Cultura e Spettacoli

"L'amore più grande? È mia madre: 95 anni di fierezza"

Il cantante racconta in una docu-fiction su Rete4 vita e successi con gli occhi di mamma Jolanda

"L'amore più grande? È mia madre: 95 anni di fierezza"

Quegli occhi piccoli e chiari, quasi sempre trincerati dietro due lenti rettangolari, ne hanno viste di cose. Cose che noi umani non pugliesi non possiamo immaginare. Non saranno le «navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione», ma magari di Otranto, questo sì. A parte gli scherzi, e senza scomodare il leggendario monologo di Blade Runner, di vita, nella vita di Al Bano, ce n'è a bizzeffe. «È come un romanzo», assicura lui. E a dargli ragione, con una docu-fiction intitolata Madre mia, si impegna Rete4: in due puntate in onda in prima serata domani e domenica 17 giugno, la voce più potente del Mediterraneo racconta l'origine «di tutto». Le sue radici contadine, la Puglia, la fuga artistica a Milano, il successo, Romina, gioie e dolori. Soprattutto - come si evince dal titolo del programma targato Videonews, a cura di Emiliano Ereddia e Marzia Rurali, realizzato con la consulenza artistica dello stesso Al Bano e condotto dal giornalista Luigi Galluzzo si racconta di lei, «l'origine del mio mondo». Cioè mamma Jolanda, 95 anni di coraggio e tenacia, stella polare di un artista al quale, a 75 anni, non si sa se credere quando annuncia che «a fine 2018 mi ritiro dalle scene». Basta vedere con quale tigna ripensa all'ultimo Festival di Sanremo.

Non ha smaltito ancora l'eliminazione?

«Certo che no: sono sempre dell'idea che non è possibile che una giuria di qualità abbia potuto dare zero a una melodia come quella del mio brano. Lo dico anche per difendere il suo autore, Maurizio Fabrizio, uno che ha scritto capolavori. Mi spiace aver concluso la carriera con quella pagina insana».

Venendo a Madre mia, senza sua mamma, dunque, non sarebbe Al Bano?

«Non ci sarei proprio. Poi, io credo che ogni uomo sia fabbro del proprio destino. In un solo caso ho avuto un totale senso di impotenza: quando ho perso mia figlia Ylenia. Quella volta è stato il destino a vincere».

Lei è legatissimo a sua madre: questo documentario è un tributo?

«Il racconto parte in piena Guerra mondiale, 1943, mia mamma isolata dai genitori. Aiutata poco da due sorelle, in fondo sola perché non aveva voluto aspettare il suo turno. Avrebbe dovuto sposarsi dopo i suoi fratelli. Incontrò invece mio padre, fecero la fuga, venne l'atto riparatore, poi mio padre partì per il fronte. Finì in Albania, fu fatto prigioniero, deportato in Germania. Tornò a casa il 29 luglio 1945, nel giorno di San Marco, reggendosi a mala pena in piedi: mia madre una settimana prima aveva sognato San Marco che le diceva che sarebbe tornato».

Madre mia è docu-fiction: ci sono commenti di ospiti alternati a spezzoni di fiction recitati da attori. Un gioco tra realtà e fiction?

«È una ricostruzione del periodo. Non è un monumento a mia madre, bensì a quell'epoca, dura ma ricca di speranze. La vita in campagna fu per noi l'abecedario: la natura ti insegna tutto. Tra gli amici che ricordano mia madre ci sono Lino Banfi, Venier, Pino Aprile, Cutugno, Facchinetti e altri».

Le sue radici contadine sono quelle che l'hanno mantenuta saldo nel successo?

«Quando ero giovane il paesello mi soffocava. Volevo cantare da quando avevo 7 anni. La prima chitarra me la comprai vendendo Pesci d'Aprile di carta su cui scrivevo filastrocche in rima inventate da me: 20 lire l'uno. Mi aiutò con un prestito anche la mia amica Fiorella. Ora non c'è più. A un certo punto ho tagliato il cordone ombelicale e sono salito al nord. Non conoscevo nessuno, ero nella giungla di Milano, ma il mio machete mentale diradò quella foresta».

Come?

«Lavorando. A mia madre raccontai che avevo un impiego nel Comune di Milano, invece facevo il cameriere. Tecnicamente non era nemmeno una bugia, ero nel comune di Milano, e lavoravo. Un giorno un paesano di Cellino San Marco mi vide in divisa e, tornato giù, lo disse a mamma. Scoppiò un casino: lei mi voleva maestro di scuola».

Fu dura a Milano?

«Era la metropoli: giù in paese c'erano le solite facce, non esistevano stranieri. Io già ascoltavo Modugno, Villa e Caruso, voci potenti e carismatiche. Lassù conobbi la musica nera, che mi arrivò come una sberla: Marvin Gaye, Ray Charles, capii che dovevo cercare una profondità solo mia. Poi mi presentai da Celentano che cercava voci nuove e ottenni il primo contratto. Cominciai ad aprire i suoi concerti, nel 1967 aprii anche quelli dei Rolling Stones. Sa che le dico? I concerti di Celentano non erano mai uno uguale all'altro, quelli degli Stones erano tutte fotocopie».

E oggi dove guarda Al Bano? Le sue turbolenze famigliari fanno ancora parlare. Cosa dice sua mamma?

«Quando conobbi Romina sul set di un film, nel 1967, mia mamma non era contenta. Temeva gli americani e il loro divorzio facile. Si arrese solo dopo il matrimonio».

E con Loredana Lecciso, come andò?

«Con Loredana fu la stessa musica, ma in tutta onestà, lo dico oggi che la mia storia con lei è finita, non ha mai detto nulla di male su mia madre.

Loredana è una donna molto intelligente, nei confronti di mia madre è stata sempre una signora, benché non godesse del suo favore».

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