Perdonate il ricordo personale, ma sto per scrivere di esistenzialismo, e siccome ognuno ha l'esistenzialismo che si merita... Per l'esame di Filosofia teoretica, avemmo in sorte, fra l'altro, lo studio di Essere e tempo di Heidegger. Tutti lì, a casa propria, nelle aule momentaneamente deserte, nelle salette appartate della Facoltà, a spaccarci la testa sull'«Esser-ci», l'«Essere-per-la-morte» e compagnia elucubrando, muovendoci con estrema cautela nella oscura foresta del Mago di Messkirch. E, ogni tanto, scambiandoci opinioni fra i chiostri. Un giorno, parlando con un compagno di avventura dotato di barba da eremita (o era anch'essa tutta colpa di Heidegger?) me ne uscii con una battuta: «Però, se lo prendi come un romanzo, bisogna dire che è un eccellente romanzo».
Ecco, immaginatevi ora me, oltre trent'anni dopo, leggere, a pagina 79 di Al caffè degli esistenzialisti, di Sarah Bakewell (Fazi, pagg. 470, euro 20, traduzione di Michele Zurlo), le seguenti parole: «Forse può aiutarci pensare a Heidegger come a un romanziere sperimentale o un poeta». Le opinioni sono quelle cose che nascono, certo, nell'intimità della scatoletta che teniamo incastrata fra le orecchie, ma che, non neghiamolo, è un piacere condividere in buona compagnia. E che la compagnia di Sarah Bakewell fosse buona s'era già capito, tramite lo stesso editore, grazie a Montaigne. L'arte di vivere, quindi... Aggiungete che, a pagina 248, l'autrice afferma: «Se usato correttamente, l'esistenzialismo è sempre esistenzialismo applicato». Perfetto. Ma: 1) che cos'è l'esistenzialismo? e 2) come lo si usa correttamente?
Rispondere alla prima domanda non è troppo complicato. Basta tornare al gustoso episodio che sa di apologo e che tanto piace agli studenti in erba di filosofia, riferito nel Teeteto da Platone: Talete vaga con il naso all'insù osservando il cielo, così non solo cade in un pozzo, ma viene anche canzonato da una servetta trace la quale gli dice più o meno testualmente: «Ti preoccupi delle cose troppo alte e non badi a dove metti i piedi». Insomma, l'esistenzialismo consiste nel badare a dove mettiamo i piedi (e le mani, e gli occhi e tutto il resto). Badandoci filosoficamente, cioè studiando i rapporti di forze che governano il nostro «io» in relazione con il mondo circostante. Rispondere alla seconda domanda è invece un po' più difficile. Ed è lo scopo che si è posta la Bakewell con il suo libro. Libro che, proprio come Essere e tempo, che è una sorta di Nuovo Testamento dell'esistenzialismo, dopo il Vecchio Testamento di Edmund Husserl, possiamo leggere sotto forma di romanzo. Con tanto di personaggi e dramatis personae.
Il prologo si svolge a Parigi, per la precisione al Caffè Bec-de-Gaz (i trattini di collegamento sono d'obbligo, nel bagaglio del buon esistenzialista), all'inizio degli anni Trenta del secolo scorso. Seduti a un tavolino a bere e discutere ci sono tre giovani professori, Jean-Paul Sartre, Simone de Beauvoir e Raymond Aron. Quest'ultimo parla dell'ultimo grido in fatto di filosofia, la fenomenologia, sbocciata a Berlino sulla scorta del grido di battaglia di Husserl: «Alle cose stesse!». Va detto che in filosofia poco si crea, ma in compenso nulla si distrugge, e che approcciare i «fenomeni» è pratica comune di ogni pensiero orientato «alle cose» più che alle «idee delle cose». Fatto sta che Sartre, il più intraprendente dei tre amici, si fionda in Germania per vederci chiaro, nonostante il suo occhio destro pressoché inutilizzabile. Husserl ha già imboccato il viale del tramonto, oscurato dall'astro Heidegger, ma il problema è un altro astro, anzi un asteroide destinato a piombare sull'Europa distruggendone gran parte: Adolf Hitler. E a latere c'è il problema che Heidegger per l'asteroide Hitler ha perso la sua filosofica testa. Così l'esistenzialismo, almeno quello novecentesco figlio della fenomenologia, per tacere degli avi Søren Kierkegaard e Franz Brentano, nasce sotto una cattiva stella. Però nasce, e cresce in fretta imparando a fare i conti con «la banalità del male», come dirà un trentennio dopo Hannah Arendt, guarda caso allieva di Heidegger a Marburgo.
Nazismo, comunismo, guerra in Corea, guerra d'Algeria, repressione della rivoluzione ungherese, inverno e conseguente primavera di Praga... Nel libro di Sarah Bakewell vediamo all'opera l'«esistenzialismo applicato» dei citati Sartre e de Beauvoir, Maurice Merleau-Ponty e Albert Camus, i protagonisti principali di quella stagione in cui la filosofia impugna, alla Nietzsche e alla Heidegger, il martello della propaganda e della riflessione e qualche volta anche il fucile. Ne nasce un costante conflitto che cerca e trova antagonisti e/o fiancheggiatori in Karl Jaspers e in Emmanuel Lévinas, in Edith Stein e in Gabriel Marcel. Fra cervelli in fuga negli Stati Uniti e bauli con preziosi manoscritti che rimbalzano da un'università a un convento, scelte di campo, pentimenti, abiure, litigi, riconciliazioni. Leggendo con occhiali filosofici di differenti gradazioni gli eventi della storia, gli esistenzialisti hanno fornito la prova regina che assolve il pensiero, sempre esistenzialmente perdente di fronte ai fatti. «Forse - scrive Bakewell - è proprio la fenomenologia, più ancora dell'esistenzialismo, la vera scuola di pensiero radicale». E non è un caso che il primo della classe, in questo senso, sia stato chi godette di una vita personale meno tormentata, rispetto ai suoi compagni di viaggio, e dunque non presa a modello dai modaioli che fecero dell'esistenzialismo una posa, un costume da indossare sotto il golf dolcevita nero.
«Probabilmente Merleau-Ponty ha lasciato l'eredità intellettuale destinata a durare più delle altre, non ultimo per la sua influenza diretta sulla disciplina moderna della cognizione incarnata, che studia la coscienza come un fenomeno sociale e sensoriale olistico, piuttosto che come una sequenza di processi astratti».
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