di James Salter
A Santa Monica ricordo, sotto la scogliera delimitata dalle palme, la breve schiera di case sulla spiaggia fra le quali ce n'era una più grande, la riproduzione di una fattoria della Normandia, che era stata presa in affitto da Roman Polanski e Sharon Tate, la sua giovane moglie.
Avevo conosciuto Polanski tramite Robert Redford.
A poco più di trent'anni, ma sembrava più giovane, Polanski era già famoso. Aveva una macchina piccola e veloce con un telefono allora una cosa innovativa , un grande appartamento e un'aria di libertà dalla monotonia di essere sempre e solo se stesso. Con orgoglio, ma frettolosamente, mi mostrò le fotografie di Sharon, che non aveva ancora sposato. In lui c'era qualcosa che attraeva e allo stesso tempo metteva in guardia; il suo sguardo sembrava sfiorare tante cose. Al di là dell'astuzia e del candore, dava la strana impressione di non giocare mai sul serio, come se fosse sicuro che a un certo punto avrebbe incassato le fiches.
Era sopravvissuto, da bambino, all'orrore del massacro e della guerra. Aveva visto una colonna di uomini portati via dal ghetto di Cracovia, condannati, suo padre tra loro, ed era corso al suo fianco come un vitello perché voleva seguirli. Suo padre prima lo ignorò e alla fine borbottò minaccioso: «Sparisci». Il bambino di dieci anni si fermò, ferito, e rimase a guardarli mentre lo abbandonavano alla vita, anche se, cosa sorprendente, sopravvisse anche il padre. C'era un prezzo da pagare per essere sfuggiti miracolosamente al genocidio e per la vita felice che seguì?
Non persi mai l'ammirazione che avevo per la sua energia e il suo fascino, un fascino non acquisito, che scaturiva da una sorgente profonda, in aggiunta alla sua capacità di comandare. Non potevo immaginarlo incapace di rispondere a una domanda o di pensare in fretta. Aveva un istinto per le cose viscerali; nelle sue mani anche il materiale più comune diventava interessante.
In quanto a Sharon Tate, resta per me una specie di Era, l'emblema del matrimonio. Pur non essendo una brava donna di casa, aveva il cuore puro e un corpo che era poesia. Si aveva la sensazione di poterne godere in tutti i modi in cui un uomo può godere di una donna, guardandola, parlandole, toccandola, e altro. Un anno dopo li vidi a Cannes, insieme, per l'ultima volta. Lui faceva il giurato al Festival. Indossava uno smoking e una camicia bianca pieghettata. Lei aveva un impareggiabile abito da sera. Li aspettavamo in campagna per pranzo, ma non arrivarono mai.
Quando una notte, a Los Angeles, Sharon Tate fu uccisa insieme ad altre quattro persone senza alcun motivo, ci fu, in aggiunta all'orrore e al disgusto, la vergogna. L'America aveva massacrato una delle sue figlie innocenti. Era incomprensibile, Dio non lo consentiva. Forse Polanski, che in quel periodo era in Europa, aveva esagerato, aveva raggiunto una felicità troppo grande, e gli era stata tolta. Era morto anche il figlio non ancora nato; il karma paterno non sarebbe stato trasmesso. Per lui provavo la pena che si può provare per i re. La sua forza sfidava il dolore.
Pensavo alla camera da letto a Santa Monica. Era spaziosa, al secondo piano, di fronte al mare. Mi ero messo in un angolo. Il sole bruciava il pavimento. Il grande letto in cui Sharon e Roman avevano dormito era disfatto, le lenzuola spiegazzate, i cuscini in disordine. Nei cassetti della cabina armadio c'erano finestrelle di vetro che consentivano di vedere in ognuno il colore delle camicie. Nel bellissimo bagno c'erano dei disegni di Matisse.
Tra le cartine stradali, i biglietti da visita, i vecchi indirizzi il mondo perduto mai riordinato c'è, lo so, una fotografia: il regista brillante, quasi demoniaco, su un divano con la ragazza alta e graziosa. Fu scattata una sera mentre cenavamo. Gli invidiavo la moglie. Adesso è difficile immaginare la donna che sarebbe diventata.
Lei resta com'era, come se in mezzo a tutti ci fosse stata questa creatura eccezionale, un po' impacciata forse, ma senza macchia, che racchiudeva nella sua persona i tratti essenziali, il vero fulcro del paradiso per cui forse lui aveva contrattato.