"Il libro dei mostri" (intellettuali) di Wilcock è un salotto culturale sotto forma di circo

Docenti cornuti, romanzieri che scrivono con i tentacoli, psicoanalisti-vipere...

"Il libro dei mostri" (intellettuali) di Wilcock è un salotto culturale sotto forma di circo

Poiché Juan Rodolfo Wilcock (1919-78) è uno scrittore al di fuori di scuole, correnti, tempi, letterature, come un campione che gioca senza squadra e senza avversari, e non rispetta regole né arbitri, è lecito leggerlo senza griglie, schemi o (pre)giudizi. Prendiamo Il libro dei mostri, uscito nel 1978 e oggi ripubblicato da Adelphi (pagg. 143, euro 16). Un testo inclassificabile. Che cos'è? Una raccolta di racconti grotteschi? Un romanzo surreale a capitoli indipendenti? Un manuale di teratologia culturale? Un atlante di antropologia fantastica? È tutto, e qualcos'altro.

Bene. Se lui scriveva quello che voleva, noi possiamo leggerlo come vogliamo. E fra le tante letture possibili, una è che Il libro dei mostri possa (anche) trattarsi di un visionario pamphlet antintellettuale, una critica horror al culturame italico (che lui da argentino naturalizzato italiano, e frequentatore della romanità impegnata, conosceva bene e detestava meglio), un divertissement acido attorno alla dolce dotta vita. Erano gli anni Sessanta e Wilcock - amico di Elsa Morante, Moravia, di Ennio Flaiano, Roberto Calasso e Luciano Foà... - si divertiva firmando su Il Mondo di Mario Pannunzio recensioni fantastiche di spettacoli teatrali e velenosissimi elzeviri sulla società letteraria dell'epoca.

Comunque, leggendo i brevi profili dei «mostri» - dove il Diverso copula con la Follia figliando il Grottesco - s'incontrano davvero strani «tipi» intellettuali. Un professore di Storia delle religioni che cammina a quattro zampe, porta le corna, ruggisce, perde saliva rossa dalle fauci e «a letto si comporta come la bestia dell'Apocalissi». Una soubrette di varietà così lardosa che una scrofa, messale accanto, sembrerebbe magra, ed emana così tanto calore che le lampadine della ribalta si fondono, mentre la platea urla ai «suoi gorgheggi dementi, le sue scale idiote, i suoi stornelli scemi». E poi un giovane cantastorie che ha un cervello di 20 grammi di peso e del volume di una nocciola e coefficiente di intelligenza pari a un tapiro: non sa fare nulla, nemmeno allacciarsi le scarpe, se non comporre i versi delle canzoni che canta alla televisione, «non troppo complicati ma con la rima». Un Cardinale rinchiuso in un blocco poliedrico di plastica trasparente, e venerato come un santo, diventa fonte di miracoli e guarigioni. Un romanziere a cui spuntano sui lobi frontali lunghi tentatoli sempre in movimento che «scrivono scrivono scrivono ciascuno il suo romanzo» (ma cosa esattamente? «Panzane, fanfaluche: con quale sottigliezza però!»), da anni candidato al Nobel, ma dall'aspetto troppo imbarazzante per vincerlo... Un ominide - vero fossile vivente - coperto di peli, che si esprime «con termini confusi e grandiloquenti» e che, prima per hobby in seguito come professione, ha scelto di darsi allo studio della semiotica strutturalista e alla scrittura di saggi, incomprensibili. Uno psicoanalista, come Ruzio Haub-Haub, in tutto simile a una vipera...

E un critico letterario come Berlo Zenobi, «un ammasso dalla forma non meglio definita» ma composto di vermi, che si riproducono e sono continuamente sostituiti, «visto che sono già ventidue anni che lo Zenobi tiene la stessa rubrica di critica sullo stesso giornale, e nessun verme resiste così a lungo». A volte, però, a pensarci bene sì.

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