Cultura e Spettacoli

L'inferno della Kolyma è (quasi) ancora un gulag

Nei luoghi dove il regime sovietico internava i suoi oppositori le miniere somigliano ai «lager» di Stalin

L'inferno della Kolyma è (quasi) ancora un gulag

Nella Kolyma l'inverno dura nove mesi, il resto è estate. Tre mesi in cui se scavi un metro sotto terra trovi il permafrost. Novanta giorni in cui il terreno si scioglie e diventa palude, l'ambiente naturale passa da tremendo e inospitale a semplicemente pessimo. È in un posto così, sinistro, lontano, deserto eppure soffocante, che è andato a curiosare il polacco Jacek Hugo-Bader per scrivere i suoi Diari della Kolyma, un viaggio ai confini della Russia profonda nella terra dei gulag (Keller Editore, pagg. 352, euro 18, traduzione di Marco Vanchetti). Secondo molti Hugo-Bader sarebbe l'erede naturale di Ryszard Kapuscinski, che poi è ciò che si dice di qualsiasi reporter che racconti il mondo. Mentre lui, forse, è solo un ottimo giornalista con il gusto per l'avventura nelle terre estreme della Russia e un'apprezzabile capacità di empatizzare con il prossimo, specie se è l'ultimo degli ultimi e ha un bel volto da camionista, da cercatore d'oro o da custode di una storia.

Hugo-Bader non è nuovo a queste imprese: nel suo libro precedente, Febbre bianca (tradotto in Italia sempre da Keller Editore), aveva attraversato tutta la Siberia a bordo di una UAZ-469 quattro per quattro. Da solo e in inverno. Questa volta ha percorso i 2025 chilometri della strada della Kolyma, costruita dai prigionieri dei gulag, facendo autostop, perché qui nessuno rifiuta un passaggio a un solitario. Intorno ci sono pericoli ovunque: i banditi, il gelo, gli orsi che arrivano la notte. Hugo-Bader aveva in mente di percorrerla in motocicletta, ma non è nemmeno riuscito a partire. Così ha dovuto fare affidamento sul buon cuore dei 150mila abitanti rimasti dopo la caduta dell'Unione Sovietica, divisi in cinquanta insediamenti sparsi lungo l'«autostrada», come chiamano l'unica via di comunicazione terrestre di tutta la regione. La via che va da Magadan, sul mare di Ochotsk, a Jakustsk in Jacuzia, quella che al Risiko sta tra la Kamkatcha e Cita. Un posto, la Kolyma, che per i suoi abitanti è ancora un'isola, mentre il resto della Russia è la terraferma. Normale, visto che prima che i prigionieri scavassero la strada ci si arrivava solo in nave, quando il mare non era ghiacciato.

Ma perché proprio lì? «Ho deciso di andare nella Kolyma per vedere come si vive in quel posto, in quel cimitero. Si può ridere, amare, gridare di gioia qui?» spiega Hugo-Bader. «Sono nato in Polonia dopo la guerra, e mi sono sempre chiesto come le persone che risiedevano accanto ai lager nazisti potessero viverci. Che poi è quello che si chiedono tutti gli ebrei israeliani di chi vive in Polonia». Ed è quello che lui ha cercato di capire intraprendendo questo viaggio nelle terre del più grande incubo del XX secolo, il terrore stalinista. Nella regione della Kolyma c'erano tra 125 e 160 campi, nessuno sa davvero quanti fossero. Si dice che potevano concentrare circa 200mila persone. Rimasero aperti dal 1917 agli anni '60 e solo qui, in questa immensa distesa di freddo grande quanto la Francia, morirono circa tre milioni di persone. Sono i campi descritti da Varlam Salamov ne I racconti della Kolyma, il libro con cui lo scrittore russo, che vi fu internato per decenni, ha raccontato la vera vita del gulag. Libro che ha costituto un breviario per Hugo-Bader nel suo viaggio, durante il quale si è imbattuto in decine di ex deportati. «Si dice che la metà degli abitanti della Kolyma sia discendente degli zek, gli ex prigionieri dei lager sovietici» scrive. La maggioranza era finita qui perché era incappata nel decimo paragrafo dell'articolo 58 del codice penale sovietico: attività antisovietica, abbreviato «Asa».

Bastava raccontare una barzelletta antisovietica e si veniva condannati: si diventava nemici del popolo in base un articolo scritto di suo pugno da Lenin. Davanti si apriva il baratro di quello che Aleksandr Solenicyn ha definito «l'ultimo cerchio del sistema». Qui i prigionieri venivano sfruttati come schiavi nelle miniere d'oro, d'uranio, d'argento e di tutti i materiali preziosi di cui abbonda il sottosuolo. Miniere che costituiscono ancora la ricchezza di questa terra. «In questa regione vive solo chi lavora nel settore estrattivo. Lo Stato cerca di far trasferire da lì gli altri, perché non è conveniente che abitino laggiù persone che non devono per forza viverci». Costa troppo. Nonostante sia stato il peggiore tra tutti gli arcipelaghi gulag dell'Unione Sovietica, in Russia oggi nessuno pensa alla Kolyma come a una terra diversa. «Per i russi, si tratta di una regione uguale alle altre. Perché prima i lager erano ovunque. Certo, nella Kolyma era assai peggio per via del clima infernale e per il fatto che non vi fosse come e dove fuggire. In quell'enorme territorio esistevano solo due categorie di persone: prigionieri e guardie».

E ancora oggi sopravvivere è difficile, la maggioranza ce la fa solo bevendo. «Non è certamente un segreto che i russi bevano moltissimo, è un loro grosso problema, il dramma di un popolo, una vera minaccia» spiega il giornalista, che a fine libro confessa di aver preso 19 pesanti bisbocce in 36 giorni di viaggio. «Nella Kolyma la causa di questo abuso sono le giornate cortissime in inverno, il clima infernale, le gelate. E anche l'ospitalità dei russi, famosa in tutto il mondo. Accolgono l'ospite come meglio possono. In più la tradizione impone di fare brindisi e di bere fino in fondo perciò tutti, tranne le donne cui è concesso di bere un poco meno, bevono esattamente allo stesso modo». Tanto. Bevono vodka, ma all'occorrenza non disdegnano di trincarsi il liquido delle batterie, il liquore dell'autostrada, specie quando fuori la temperatura si approssima ai meno 50 gradi. E forse bere serve anche per dimenticare i milioni di morti incastrati nel permafrost. «Ma in generale i russi sono smemorati, di proposito. E da quelle parti non amano parlare troppo di quello che è successo. C'è un fenomeno che descrivo nel libro, si chiama sindrome del silenzio: consiste nel non parlare di quello che rinnova il dolore. Perché solo così si può andare avanti».

Dimenticando quel che Hugo-Bader invece non vuol dimenticare.

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