L'unico futuro dei cinquantenni è su un campo di calcio (sperduto)

Vittorio Macioce

Questo non è il Giovanni Floris della tv. È altro, è altrove. È il vecchio ragazzo che racconta una storia, quasi una favola o una di quelle leggende da bar di paese, che di anno in anno e di bocca in bocca allarga i confini della realtà e la rende magica. E così poi ti ritrovi a parlare della terra di tuo padre, degli incroci della vita, di quei pochi amici che sono quelli di sempre, dei tuoi sogni e delle tue idee senza prenderti troppo sul serio, di calcio da cortile o da campo sportivo, di matrimoni marci, di affaristi, politicanti e soliti stronzi e con tutte le rughe dei tuoi quasi cinquant'anni.

Magari il mondo non lo cambi. C'è da qualche parte però un luogo dove ti metti in gioco davvero, un pezzo di terra, un paese, una valle, un posto che puoi chiamare casa. È lì che ti spogli di paure e vigliaccherie, della ruggine di ipocrisia sul volto, del menefreghismo e provi a fare qualcosa di grande, di vero, di diverso: cambiare il destino della tua piccola patria. Cura il tuo pezzo di comunità. Se ognuno facesse così qualcosa cambierebbe anche in Italia. È questo il cuore, non detto, del romanzo, La prima regola degli Shardana (Feltrinelli, pagg. 335, euro 18). Non sono eroi. Sono tre cazzari, tre amici, che si sopportano dagli anni '80. Uno è un giornalista, un volto da talk show che la gente riconosce per strada. È lui che racconta e se di cognome fa Rodari capisci già che da qualche parte sotto la noia dei sorrisi stampati e del cinismo rincorre l'innocenza perduta dell'infanzia. Rodari come Gianni Rodari. Rodari come le filastrocche. «Pescatore che vai sul mare, quanti pesci puoi pescare?». Rodari e i colori dell'arcobaleno. C'è Sandro con una vita da buffone, che sogna di riscrivere Mistero buffo di Dario Fo ma per il momento è in fuga dalle sue truffe. C'è Raffaele che ha fatto fortuna con la tequila cubana, ma è durata poco e ora è un mezzo fallito ai piedi di una moglie bagascia e di un suocero palazzinaro. Da tre tipi così non ti aspetti magia e miracoli. Solo che il calcio da cortile è una porta del tempo e fa nascere imprese da argonauti, come acquistare una squadra di calcio di terza categoria e sognare di portarla lì dove gioca il Frosinone. Ecco perché si ritrovano tutti e tre a Prantixedda Inferru, nel punto più sperduto dell'Ogliastra, dove il caldo è più caldo che qua, con una combriccola di picari e guasconi, un prete veneto, una ragazza dagli occhi verdi, una punk troppo piatta, uno zoppo sulla fascia destra, uno zingaro in porta e un dipendente del Comune che arrotonda con la marijuana. L'obiettivo sul campo è vincere la coppa Sarda, quello nella vita è mettere in fuorigioco sindaci e affaristi che vedono in quel pezzo di terra solo sangue da sfruttare. L'allenatore dell'Inferru è Francesco Selvaggi detto Spadino, un metro e sessantuno di altezza e trentotto di scarpino, gloria del Cagliari e campione del mondo nella notte del Bernabeu senza aver mai messo piede neppure in panchina.

Ma se stai tra i ventidue comunque nella squadra un compito ce l'hai, non importa quale, fosse anche tenere compagnia al cojote che non dorme la notte, quello dell'urlo che non finiva mai. Il giornalista della storia non è Floris. Non è lui. È quello che vorrebbe essere.

È uno Shardana, popolo del mare, archetipo dei sardi, pirati e ribelli che mai nessuno ha saputo combattere, navigando ai confini del Mediterraneo e senza pisciare controvento. Quanto futuro c'è ancora a cinquant'anni? Forse dipende dal vento.

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