Piace a tantissimi: mai un candidato del Partito repubblicano aveva ricevuto così tanti voti, durante le primarie. Tantissimi lo disprezzano e lo temono: sono quelli, in America e in Europa, per i quali Donald Trump è una minaccia, una anomalia da correggere, così scorretto da non meritare nemmeno l'avverbio "politicamente". Quelli per cui "The Donald" - il soprannome che gli è rimasto da quando lo chiamava così la prima moglie Ivana, modella cecoslovacca bellissima che però con l'inglese non se la cavava granché (all'inizio) e metteva un "the" davanti a tutte le parole - è "una falla del sistema, un bug, un cattivo pensiero che ha preso temporaneamente in ostaggio il cervello della più grande democrazia della storia". È così che Mattia Ferraresi, corrispondente dall'America del Foglio, definisce la "questione Trump" nel suo libro La febbre di Trump. Un fenomeno americano, che esce giovedì (Marsilio, pagg. 160, euro 12): perché la questione è, appunto, capire chi e che cosa sia lo sfidante di Hillary Clinton alla corsa per le presidenziali, un candidato discusso come non mai, criticato e osannato allo stesso tempo, spesso con la stessa intensità e passione, rispettivamente da detrattori e sostenitori. Capire se Trump sia davvero questa "anomalia", oppure no. E, dall'altra parte, se sia davvero anti-establishment come lui stesso si propone, oppure no. Un clown, un giullare, un riccone sboccato e volgare, o un self made man che intercetta i desideri veri del popolo? Un americano vero, o una degenerazione? Dice Ferraresi, fin dall'inizio, che Trump "non è avulso dal contesto", come molti l'hanno dipinto. Non è spuntato come un alieno: parla a un suo pubblico preciso, "un'America ferita, in fase di disimpegno a livello internazionale, abitata da un ceto medio impoverito che non vuole abituarsi a un inesorabile new normal, un Paese che soffre di patologie non riconducibili a meri fattori economici". Lui, che incarna il sogno americano, trova consenso laddove, sullo sfondo, "sventola un sogno americano sbiadito".
La nostalgia è una delle chiavi di lettura del trumpismo: again è la parola cruciale del suo slogan elettorale, "Make America Great Again", rendiamo di nuovo grande l'America, replica di quello reaganiano. Nostalgia doppia. Lui stesso mitizza da sempre gli anni Cinquanta, quelli dell'America "bianca e contegnosa"; ed è al benessere, alla pace, alla sicurezza del passato che cerca di riportare i suoi elettori. Trump è cresciuto su un terreno di coltura preciso, e si rivolge a un elettorato preciso (per quanto sondaggisticamente poco definibile in termini di etnia, età, reddito): il "terzo partito invisibile", quello dei "senza voce". La nixoniana (Nixon, insieme a McCarthy, è uno dei "maestri" di Trump) "maggioranza silenziosa", di cui pochi giorni fa sul Washington Post lo scrittore Jim Ruth si è dichiarato parte, quella che "dà valore al lavoro duro e ama gli Stati Unti come erano", quella che non va "stereotipata", dice Ruth, il quale ammette: "Odio Donald Trump. Ma potrebbe ottenere il mio voto".
Per ora, voti ne ha avuti tantissimi. È vero anche, come sottolinea Ferraresi, che "The Donald" è stato "un bene di consumo di massa per oltre quarant'anni", prima come uomo d'affari di successo e poi anche in televisione, come protagonista del reality The Apprentice. È vero che ormai, dal ritratto storico che gli dedicò il New York Times Magazine nell'aprile del 1984, è diventato "un'icona pop", lui, il suo ciuffo, i suoi miliardi, le classifiche di Forbes, le mogli patinate, la Torre sulla Quinta Strada che è l'apoteosi dello stile trumpish, luccicante e sfavillante. Sulla piazza newyorchese è così dirompente che Graydon Carter, poi storico direttore di Vanity Fair, all'epoca si prende la briga di tirargli un colpo basso dalla copertina di Spy, mostrandone le mani piccole e alludendo a Trump come al "plebeo con le dita corte": e, di tanti attacchi, questo è uno di quelli che gli è bruciato di più, visto che da anni periodicamente fa mandare foto a Carter con immagini delle sue mani, per fargli notare che non sono piccole.
Quello insomma che emerge è che Trump è "un prodotto naturale, non l'eccezione degenerata, di una tradizione americana perimetrabile, una forma mentale riconoscibile": lo è sia in termini, diciamo così, di "approccio esistenziale", nei suoi tratti marcati di anti-intellettualismo e di incoerenza deliberata e addirittura praticata come sfida all'avversario; sia in ambito politico, nel solco di un passato a cui lo stesso Trump si riferisce quando proclama: "Questo è il Partito repubblicano, non è il Partito conservatore". In pratica il "trumpismo", coi suoi tratti di nazionalismo, protezionismo in economia e dall'immigrazione, isolazionismo e anti-interventismo in politica estera rimanda al filone cosiddetto paleocon: i conservatori pre-Guerra fredda, la "vecchia destra" che sembrava scomparsa e invece è riemersa potente, una corrente che è l'unica ideologia apparentemente sottostante a un discorso dichiaratamente e orgogliosamente non ideologico e che si incrocia coi bisogni, le frustrazioni e i desideri di una classe media sotto attacco, depressa e in declino, che trova la sua speranza nel passato di un'America gloriosa.
Che l'"eroe popolare e populista" sia poi "un palazzinaro miliardario di Manhattan con i lavandini del jet privato placcati in oro" può funzionare? Trump, dice Ferraresi, è in realtà "un'incarnazione dell'establishment, un suo gioiello scillante". Ma nel trumpese, la sua lingua di slogan e battute, ha promesso: "I will give you everything", vi darò tutto. L'America deciderà se credergli.
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