Signora Marinoni, chi sono Maria ed Elisabetta per Schiller?
«Difficile dirlo: certo ha scelto di intitolare Maria Stuarda una tragedia in cui queste due protagoniste sono assolutamente alla pari. Forse anzi, a parte il primo atto, la presenza maggiore è di Elisabetta».
Chi è la sua Maria?
«Il frutto dell'alchimia tra la personalità dell'attore e quello che conosciamo del personaggio. Ho studiato molto per questo spettacolo: la vita avventurosissima di Maria fino ai 25 anni, la sua impulsività un po' bipolare, l'alternare tenerezza e levità a stati quasi animaleschi. Cavalcava per giorni da sola, si innamorava perdutamente, le è successo di tutto. Per me fortissimo è stato il suo rapporto con la morte: ho appena perso mio padre e le parole di ineluttabilità della fine, che per lei è stata violenta e non desiderata, hanno risuonato in me. Potevo rifiutarle, essere fredda, ma ho deciso di farle mie».
E la sua Elisabetta I?
«Tanto Maria per me è leggera, bianca, avorio, anima alta, baciata da fede, grazia, dignità e autorevolezza, di sincera spiritualità tangibile - Schiller dice Intorno a te sempre vita e luce - tanto Elisabetta è maschera totale. Povera Elisabetta: ha dovuto costruirsi, non doveva essere regina, aveva enormi problemi fisici e sessuali, al punto che molti storici pensano fosse un uomo. Va detto che è sempre presente Elisabetta in Maria e sempre Maria in Elisabetta, lo sappiamo storicamente: hanno avuto un legame di attrazione e odio, sangue e pensiero, l'una il fantasma dell'altra».
Che cosa le accade nell'attimo in cui sa quale delle due metterà in scena quella sera?
«Questa estrema incertezza fa in modo che davvero non possiamo mai andare in scena tranquille. Mi è capitato di fare tre sere di seguito Maria e inizi un po' ad affezionarti, poi mi è capitata Elisabetta: dovevo entrare nella sua vita, ero come confusa da questo gioco crudele e magnifico che ci obbliga a essere qui e ora e vedere il mondo e la storia da due punti di vista diversi e complementari. Ma è stato un attimo: tu, che contieni Maria ed Elisabetta, infili un costume, un trucco, ti cali in una voce e in un pensiero. E pensi alla precarietà del destino, a come cambia di schianto, come dice la stessa Maria».
Funziona, in scena, il potere alle donne?
«Queste due donne sono due geni: un genio naturale di fascino e carisma l'una e l'altra un genio di spaventosa intelligenza politica. In generale però, il potere al femminile in scena ha un fascino maggiore, perché la donna è sempre madre potenziale e da lei ci si aspettano umanità e compassione, capacità di intimità con i corpi, riconoscimento di un certo tipo di relazione amorosa.
La donna abbraccia e bacia più dell'uomo, il suo cuore si manifesta concretamente in modo più evidente, quindi da una donna di qualsiasi colore politico io mi aspetto comprensione maggiore. Per questo, quando arriva, la malvagità fa più impressione».
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