Il mattatore della manifestazione

E il Leone di platino va a… Quentin Tarantinooooo.
Già, è lui il vincitore, anzi il trionfatore assoluto della 67ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica. C’è poco da eccepire, poco da cavillare. Il presidente superstar è una iena al Lido: la premiazione in Sala Grande officiata in abito nero e occhiali da sole. L’emozione contenuta per l’annuncio. Poi il lungo abbraccio sul palco a Sofia Coppola che da solo vale il prezzo del biglietto. Così è stato per tutto il Festival, undici giorni di vita spericolata. Come quando ha ballato al Bungalow eight sulle note di Pulp fiction. O quando ha cazziato i fotografi che lo assediavano con richiesta di pose e scatti quando lui non ne aveva voglia: «Altrimenti mi costringete a stare in camera». Oppure quando fendeva la hall luccicante dell’Excelsior in bermudoni e felpa con cappuccio. E ancora quando, alla consegna dei Nastri d’Argento, ha rubato la scena a Tilda Swinton che elogiava il cinema italiano di adesso mentre lui, parlando del suo Bastardi senza gloria, ha detto che l'idea gli era venuta dai Macaroni combact di Umberto Lenzi e Fernando Di Leo.
Superapplaudito sul red carpet, inseguito dai fan. Una rockstar in laguna. Un ciclone non solo per la mole, di entusiasmo, ingenuità, passione. Il Barney che non si è visto nella Versione di Barney. Senza accondiscendenze, Quentin è provocatore, sfrontato, scorretto. Tanto da premiare la sua ex fidanzata, da volere una menzione speciale per il suo scopritore Monte Hellman, da omaggiare un imitatore esplicito come Alex de la Iglesia. È stato proprio l’amico Hellman a insegnargli la virtù della scrollata di spalle quando «nel 1992 al Sundance di Toronto, dove presentavo Le Iene, mi disse che un amico in giuria è la cosa peggiore che ti possa capitare, perché per quanto ti voglia sostenere, sarà troppo imbarazzato e non oserà farlo».
Invece, Tarantino è un alieno a Venezia e osa. Perché pensa e agisce in grande. Conflitti d’interesse? «E chissene»! Il conflitto lo vince il cinema con la c maiuscola. Quello che fa sognare e pensare insieme. Ecco qua: in «Somewhere» c’è una scena in cui l’attore in crisi (Stephen Dorff) va al trucco per invecchiare e sparisce nel calco di gesso. Zoommando lentamente, la cinepresa della Coppola porta lo spettatore dentro la psiche del personaggio che rimane immobile, in compagnia solo del respiro che scorre nelle narici, unico residuo visibile del suo volto. Per il presidente della giuria quella «è l’immagine più bella che mi porto da Venezia». Niente compitini. Niente intimismi psicologici. Il cinema italiano - perfettino, narrato, ombelicale, ancora lontano da Il divo e Gomorra - non può sedurre Quentin. La politica non garantisce la qualità di un’opera. Meno ancora un premio. Con buona pace delle bocche storte degli addetti ai lavori. Dei birignao del «sì, però…». Dei farisei della critica. Soprattutto quelli italiani, così indispettiti; mentre quelli stranieri, da Le Monde al Time all’Independent, se non hanno visionato tutte le pellicole nostrane, pure hanno elogiato sia il cartellone che il verdetto della 67ma edizione.
L’altra sera, accolto dopo la premiazione da qualche fischio e qualche «buuu», Quentin ha risposto mimando il gesto della masturbazione e rispedendo ai giornalisti la contestazione con un esplicito: «Buuu you!». Sta al gioco e regge la sfida perché è un genio che non se la tira.

Un adorabile bambinone che, pur avendo visto migliaia di film, conserva lo sguardo semplice e schietto di un neofita che va alla Mostra per la prima volta con lo stesso spirito di un ragazzino al luna park.
Quentin, un alieno al Lido. Che ha trascinato quelli più leggeri nel suo pianeta.

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