Antologica ma non tanto. Con uno che ha sempre usato le parole, meglio andare cauti. Più corretto definirlo un nuovo progetto che ingloba, all'interno di uno spazio completamente ripensato, opere storiche a ripercorrere una carriera cominciata negli anni '60 e consacrata di recente anche oltre confine. A 82 anni Emilio Isgrò è uno tra gli autentici maestri dell'arte italiana. La sua storia, cominciata a Barcellona in Sicilia e sviluppatasi a Milano, viene ripercorsa nella mostra, a cura di Germano Celant, alla Fondazione Giorgio Cini di Venezia, da venerdì 13 settembre al 24 novembre, realizzata con il contributo del Progetto Cultura di Intesa SanPaolo.
Artista certo, ma anche romanziere, poeta d'avanguardia, giornalista, Isgrò ama raccontare e raccontarsi nel 2017 Sellerio ne ha pubblicato la biografia Autocurriculum, un libro davvero divertente - con la leggerezza e la sapienza del siciliano colto e disincantato. Lo abbiamo intervistato in esclusiva per il Giornale, impegnato agli ultimi ritocchi della mostra veneziana.
Maestro, dopo Manzoni e I promessi sposi ha scelto di partire dal romanzo per eccellenza della letteratura americana dell'Ottocento: Moby Dick di Hermann Melville. Perché?
«Forse per un misterioso istinto, dopo aver visto l'immagine di una balena spiaggiata. Tutto il romanzo è permeato da un linguaggio biblico, Melville cita il profeta Giona che visse nel ventre della balena. Sarà l'opera cancellata di Melville a contenere quindi tutte le altre e chi entrerà alla mostra si lascerà accompagnare nel ventre della balena, ovvero il ventre del linguaggio mediatico che copre con il rumore il proprio reale e disperante silenzio».
Ci sono opere molto importanti del suo intero percorso però, in qualche modo, si tratta di un progetto inedito.
«La mostra è un marsupio che include un'antologica posizionata appunto nel ventre della balena. Penso al presente, alla difficoltà di comunicazione nella società globalizzata, in qualche modo alla cancellazione come afasia».
I suoi lavori fondamentali ci sono tutti: tra gli altri, la prima cancellazione del 1964, l'installazione del Cristo cancellatore composta da 38 volumi, Storico, il libro cancellato del 1972, la carta geografica Weltanschauung lunga 9 metri fino al recentissimo Corpus Iustinianeum cancellato in sei volumi. Come li ha selezionati?
«Alcuni sono indispensabili per tracciare un percorso storico, ma in particolare ho voluto puntare su opere meno conosciute o mai esposte che fanno emergere meglio la mia pittoricità. In parte mi considero un pittore, il che in passato mi ha creato qualche problema con gli artisti mentalisti, per non usare il termine concettuale. Ad esempio c'è la Storia rossa del 1969 in cui si evidenziava già allora il tema del rapporto tra parola e immagine».
Per un artista comunque ascritto al concettuale è davvero sorprendente questa intenzione.
«Mi piace l'idea di suggerire una lettura nuova, appunto di pittoricità. Perciò ho voluto esaltare la dimensione spettacolare, teatrale, pur in una drammaturgia contenuta, lavorando direttamente sui muri. I libri, peraltro, sono volumi, architetture».
Nel 1970 lei cancellò l'Enciclopedia Treccani, un gesto decisamente forte. Oggi, il volume di questa mostra è pubblicato dalla casa editrice Treccani. Solo una coincidenza?
«Non proprio. È un'idea di Massimo Bray, direttore generale della Treccani, che mi ha proposto l'edizione per festeggiare i cinquant'anni della cancellazione. I tempi sono molto cambiati da allora, all'epoca venni diffidato dalla Volkswagen perché avevo utilizzato il Maggiolino in una mia opera, oggi sarebbe più semplice».
A proposito di gesti forti, nel 2011 lei cancellò la Costituzione. Poi ognuno ci può vedere ciò che vuole, però il messaggio allora sembrò chiaramente politico. Nel 2019 lo rifarebbe?
«Ogni cancellazione ha senso nel tempo in cui si
vive, è comunque contraddittoria, preserva e distrugge. Oggi però forse non lo rifarei, direi piuttosto che conviene rispettarne lo spirito per evitare strane avventure liberticide. Però noi italiani abbiamo gli anticorpi».
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