Milos Forman ora è libero di volare sul nido del cinema

Oscar per il film con Jack Nicholson, celebrò l'istinto libertario dell'individuo

Milos Forman ora è libero di volare sul nido del cinema

Un altro dei grandi testimoni del secolo breve se ne va lasciandoci una filmografia all'insegna della più totale libertà, formale e di contenuto. Perché Milo Forman, nome d'arte di Ján Tomá Forman, nato a Cáslav (Boemia) il 18 febbraio 1932, ha vissuto sulla sua pelle le grandi tragedie del '900. A partire dalla perdita dei genitori morti nei campi di concentramento, il padre a Buchenwald nel 1944, la madre un anno dopo ad Auschwitz: «I miei genitori erano dei patrioti ed è stato più o meno per questo che sono morti. Qualcosa di quel sentimento l'ho assorbito anch'io ma l'ho capito solo quando mi sono trovato lontano dal mio Paese, dalla cultura e dalla famiglia», ha ricordato il regista nell'autobiografia Turnaround. A memoir (mai pubblicata in Italia). Negli anni '50 Forman si diploma alla FAMU di Praga, la famosa facoltà di cinema, e inizia a lavorare nel cinema come attore, aiuto regista e sceneggiatore (ma anche in tv come conduttore). L'esordio è nel 1963 con il mediometraggio Il concorso dove conosce la sua futura seconda moglie (era stato sposato con Jana Brejchova che diventerà a breve l'attrice ceca più famosa). Dello stesso anno è il suo primo lungometraggio, L'asso di picche, su un giovane operaio in conflitto con la generazione dei padri. Con Gli amori di una bionda (1965), nominato all'Oscar per il miglior film straniero e uno dei titoli di punta della Nová Vlna, la «nuova ondata» del cinema cecoslovacco, il regista trova il suo stile nella commedia sentimentale a tinte leggere che sfocia nel 1967 nel grottesco Al fuoco, pompieri! in cui viene preso in giro il militarismo e la burocrazia di Stato.

La successiva repressione della Primavera di Praga lo porta a New York (diventerà cittadino statunitense) dove nel 1971 gira la strepitosa commedia generazionale Taking off che vince il Premio speciale della giuria a Cannes ma si dimostra un fiasco al botteghino forse perché, ricorderà il regista che però diventerà uno dei registi di culto della New Hollywood, «i miei istinti cinematografici erano troppo cechi e non avevo nessuna esperienza col film americano».

Ma, come nei film, l'America concede sempre una seconda chance. Plasticamente raffigurata da Michael Douglas che gli propone l'adattamento del romanzo di Ken Kesey Qualcuno volò sul nido del cuculo. L'emblematico film con Jack Nicholson, un preciso atto di accusa contro qualsiasi forma di privazione della libertà da parte dello Stato (si svolge in un manicomio ma ovviamente il discorso è più generale), ottiene un grandissimo successo e rimane uno dei pochi nella storia del cinema ad aver vinto tutti e cinque gli Oscar principali (film, regia, attore, attrice e sceneggiatura non originale).

Di colpo Forman diventa uno dei registi più richiesti e si può quindi permettere di riprendere in mano il progetto del musical Hair di cui non era riuscito a ottenere i diritti anni prima. Acquista una casa a Central Park immaginando l'ambientazione del film proprio da quelle finestre. L'antimilitarismo di Forman trova in Hair il film perfetto perché unito a una forte carica libertaria già nostalgica rispetto al movimento dei figli dei fiori.

Nel 1981 Dino De Laurentiis gli propone la regia di un adattamento cinematografico del bestseller di E.L. Doctorow Ragtime in cui torna a recitare dopo vent'anni uno dei miti di Hollywood, James Cagney, mentre l'anno successivo firma un altro dei suoi capolavori, Amadeus, in cui, nel raccontare in chiave postmoderna la vita di Mozart, si ritrova ancora una volta a porre in primo piano la ricerca di libertà degli individui da qualsiasi convenzione. Il film è un grande successo confermato dalle 11 nomination all'Oscar e dalle 8 statuette vinte.

Con Larry Flynt. Oltre lo scandalo (1996) Forman mette in scena una storia sulla libertà d'espressione costruita sulle vicende del magnate del porno Larry Flynt. Mentre nel 1999 con Man on the Moon porta sul grande schermo la vita e l'arte dell'eccentrico comico statunitense Andy Kaufman interpretato, ma sarebbe meglio dire «vissuto», da un camaleontico Jim Carrey (guardate il recente documentario su Netflix Jim e Andy...).

Nel 2006 con L'ultimo inquisitore torna a lavorare con il suo amico sceneggiatore Jean-Claude Carrière nell'ennesima opera che si scaglia contro il potere, in questo caso

dell'Inquisizione spagnola ai tempi di Francisco Goya. È il suo ultimo lungometraggio. A chi gli chiedeva di progetti futuri rispondeva così, con l'eterno sigaro in bocca e l'occhio destro malato: «Nessun altro film, sono in ferie».

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