"Mio fratello Giorgio Pisanò cronista e detective scomodo"

La sua inchiesta sulla Guerra civile non faceva sconti e non era ideologica. Per questo fu escluso dai "salotti"

"Mio fratello Giorgio Pisanò cronista e detective scomodo"

Il talento vero di Giorgio Pisanò (1924-1997) non era quello dello storico accademico ma quello del giornalista investigativo di prim'ordine.

Pisanò era soprattutto un cronista-detective provvisto di un intuito formidabile e di quella capacità innata di analisi-sintesi che spinge irresistibilmente alcuni (pochi) più che altri a cogliere in uno scenario complesso e ambiguo gli elementi essenziali per afferrarne la chiave interpretativa e renderli comprensibili al di là di ogni ragionevole dubbio.

Questa sua intima caratteristica non gli era sempre benefica perché lo metteva necessariamente in rotta di collisione con coloro (tanti) che per le più disparate ragioni tendono a privilegiare l'interpretazione a priori (pregiudiziale) degli scenari complessi e ambigui per sovrapporvi una dimostrazione di comodo che tutto è tranne che qualcosa di attinente alla realtà.

Ma la testardaggine da verità del segugio ostinato riusciva ad avere la meglio sui pregiudizi di convenienza e le inchieste di Pisanò hanno lasciato il segno più volte nella prima repubblica: dalla difesa di Raoul Ghiani nel caso Fenaroli con annesso scandalo Italcasse (1958) allo scandalo Lockheed (1980); dallo scandalo Anas (1970: la clamorosa denuncia di tangentopoli, rivelata in nuce vent'anni prima di mani pulite) allo scandalo dei petroli (1980); dalla prima inchiesta sull'assassinio di Enrico Mattei (1963) a quella sulla morte dal banchiere Roberto Calvi (1982), per citarne solo alcune.

Ovviamente, ostinandosi a cantare fuori dal coro, Giorgio Pisanò non poteva pretendere di entrare nei salotti buoni (vulgo, niente editoria paludata per lui: doveva stamparsi tutto da sé), cosa della quale s'infischiava altamente perché questo tributo inevitabile al suo modo di essere non gli negava l'ammirazione e la stima di tanti e perfino di colleghi avversari politici ma capaci di apprezzarne il valore al di là delle ideologie divergenti.

Come scriveva Dario Di Vico sul Corriere della Sera dell'11 novembre 1996 sotto il titolo «Che bravo quel Pisanò»: «Giorgio Pisanò? È uno dei più bravi giornalisti italiani. Non ha mani ricevuto premi per la semplice ragione che è fascista. Di quelli dichiarati. Mai pentiti. Questo non gli impedisce di essere un ostinato cacciatore di notizie. A scrivere questo clamoroso elogio dell'ex direttore del Candido non è stato né Vittorio Feltri, né Pietrangelo Buttafuoco e nessun'altra delle penne della destra, ma addirittura un avversario politico. Quel Marco Nozza, inviato del Giorno e capofila per molti anni dei giornalisti antifascisti e democratici milanesi. Nozza ha tributato la standing ovation al vecchio Pisanò dopo aver visto in tv un'ennesima prova del suo fiuto giornalistico: uno speciale sull'oro della Banca d'Italia trafugato dai nazisti».

Sull'essere fascista di Giorgio Pisanò (sull'essere fascista tout court dalla seconda metà del secolo scorso) ci sarebbe da scrivere un saggio corposo e non è questa la sede, ma resta il fatto che Pisanò, trent'anni prima, non aveva indagato e scritto la Storia della Guerra Civile da fascista: l'aveva indagata e scritta da italiano capace di un'inchiesta colossale in condizioni proibitive e consapevole del bene supremo di una memoria nazionale riconoscibile e rispettabile da tutti in quanto rispettosa dei fatti realmente accaduti.

Una memoria nazionale non umiliata da un avvilente catechismo storiografico, imposto per manicheismo istituzionale, che ancora oggi oltraggia necessariamente una parte cospicua della collettività in funzione di quell'«antifascismo, inteso come ideologia di Stato» che il primo, vero, grande storico accademico del fascismo, Renzo De Felice, avrebbe cominciato a contestare a viso aperto dal 1987.

Se così non fosse stato, se cinquant'anni or sono Giorgio Pisanò avesse condotto la più grande inchiesta della sua vita non da italiano ma da fascista, possiamo essere certi che un altro suo collega, irriducibile avversario politico ma testardo al pari di lui nel pretendere il rispetto della verità storica come base irrinunciabile della convivenza civile, Giampaolo Pansa, mai avrebbe scritto, come invece fece nel 2011: «C'è stato qualcuno, qualche temerario coraggioso, a cominciare da Giorgio Pisanò, che ha rifiutato di sottomettersi al gioco imposto dai vincitori.

Ha cominciato a far parlare i parenti di chi era stato ucciso dai partigiani, a raccogliere le testimonianze dei superstiti della RSI, a cercare documenti e a ricostruire la storia di chi si era battuto a fianco di Mussolini. Senza personaggi come Pisanò e pochi altri il sottoscritto non sarebbe mai stato in grado di percorrere la strada che ha percorso, libro dopo libro».

Nessuno ha mai smentito i contenuti delle opere di Giorgio Pisanò.

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