«Il mio jazz nomade arriva dal passato e guarda l'hip hop»

Custodisce i fascinosi segreti poliritmici delle percussioni come pochi altri jazzmen (ma il termine è restrittivo) perché si ispira alla tradizione africana e a maestri come Max Roach e Philly Joe Jones. Hamid Drake èil batterista più creativo sulla scena sia per le sue uscite discografiche che per i mille progetti e collaborazioni che lo vedono protagonista. Come il concerto al Manzoni di Milano insieme a Archie Shepp, quello di oggi, sempre al Manzoni e sempre per Aperitivo in concerto con Nicole Mitchell e quello del 20 gennaio con lo strano ensemble Punkt@the Manzoni.
Lei suona un po' con tutti, da Wayne Shorter a Pharoah Sanders. Preferisce guidare la sua band o le collaborazioni?
«Mi sento un “griot” moderno. I griot erano i cantastorie itineranti africani, precursori dei bluesman in terra americana. Suono per raccontare il mondo e non mi sento leader quando guido la mia band, così come non mi sento un gregario quando mi esibisco con grandi artisti come Nicole Mitchell».
Il suo progetto più ambizioso si chiama Bindu.
«È una serie di dischi che vuol dimostrare quanto ci sia un filo rosso che guida la musica nera, anche quella apparentemente più diversa. Alla fine Bindu sarà composto da cinque cd ognuno completamente differente dall'altro, passando dalla sperimentazione alla world music, dall'hip hop al jazz-reggae».
Incroci molto arditi...
«Solo apparentemente, il vero hip hop, quello che non passa alla radio, è figlio della tradizione nera. Non a caso suono con Napoleon Maddox negli Iswahat».
Lei non parla mai di jazz ma di Great Black Music...
«Le etichette confondono; sia jazz che Great Black Music non rendono appieno l'idea dell'universo afroamericano. Io piuttosto la definirei Grande musica tradizionale africana o afroamericana. C'è una Grande musica tradizionale di tutto il mondo, per esempio in Italia c'è la tradizione classica. Noi abbiamo quella che comunemente si definisce jazz».
Quali artisti l'hanno più influenzata?
«Fred Anderson, che pochi conoscono, è il mio vero maestro, mi ha insegnato a esplorare tutti i mondi e a non fermarmi alle apparenze.

Poi non posso dimenticare l'esperienza con Don Cherry che mi ha introdotto alla visual art».
Che cos'è l'avanguardia?
«Portare avanti il passato, ricordare sempre il blues di Robert Johnson e Son House, perché quello fu l'avanguardia delle avanguardie».

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