di Matteo Sacchi
Non è semplice fare una fiction sul tema dei migranti, sui disperati che si riversano sull'isola di Lampedusa. A giudicare dalla prima puntata, l'omonima mini serie della Rai è orientata a sviluppare la vicenda da un lato solo. Il dramma dei disperati che scappano dalle coste libiche c'è tutto. Forse è raccontato in modo un po' oleografico - la colonna sonora sembra quella di un prodotto anni '80 - ma c'è. Anche la fatica degli uomini della capitaneria di porto. Il resto però finisce, nel migliore dei casi, sullo sfondo. Per intenderci gli scafisti sono solo degli energumeni armati che urlano «yallah, yallah», un po' come i nazisti dei film di guerra di serie b che urlavano solo «schnell, schnell». Eppure quelli che lucrano sapendo che più un barcone è malconcio più le motovedette si spingeranno in là per soccorrerlo sono un nodo chiave della questione. Ma quello che non finisce sullo sfondo e viene invece trattato in modo tranchant è il peso dei migranti sull'economia dell'isola e non solo. Nella fiction gli unici personaggi che abbiano dubbi sull'accoglienza di massa sono villain da operetta. Delle macchiette come l'albergatore Santoni, che sprizza egoismo. E chi aiuta i migranti? Beh è un buono a tutto tondo, se ci sono dei «cattivi» stanno a Roma (la fiction è ambientata nel 2010, governo di centro destra). E se un buono ha dei dubbi, sono quelli di Viola, la responsabile del campo d'accoglienza: «Che senso ha aiutarli se prima o poi li rimandiamo indietro?».
La risposta che si vorrebbe dal telespettatore? «Teniamoli qua!». Una risposta di pancia. Però da una fiction così non ci si aspettano né domande né risposte. Ci si aspetta che dia conto della complessità del reale. Lampedusa forse ci prova, ma non lo fa.