Se anche stessimo vivendo uno dei futuri possibili che un tempo ci rendevano sgomenti, ne saremmo così avvolti e saremmo così impegnati a essere noi stessi che nemmeno ce ne accorgeremmo. È più o meno questo che, con uno humour fuori dal comune e con quella levità narrativa che gli è propria sin dai tempi di Concerto per archi e canguro (Giunti), lo scrittore newyorchese (più precisamente di Brooklyn, come si definirebbe lui) Jonathan Lethem cerca di dirci nel suo ultimo titolo, uscito ieri in Italia: L'Arresto (La nave di Teseo, pagg. 336, euro 20, traduzione di Andrea Silvestri). Post-apocalittico, supertecnologico, distopico romanzo su quella che un tempo si sarebbe chiamata modernità possibile.
Distopico, sì, anche se ormai che cosa significhi romanzo distopico non si sa più, visto che distopia è tutto e nulla, persino ciò che potrebbe accadere tra un paio di giorni. L'Arresto è distopico, ma non certo nel modo in cui intendiamo le saghe alla Atwood, ovvero il mondo orribile che ci attende se facciamo scelte non etiche o anche solo politicamente scorrette. Lethem, classe 1964, si muove su altre fantascienze, più classiche, o retrofuturiste, come ha scritto qualcuno. Forse perché quando aveva 13 anni ha visto Star Wars nello stesso cinema per venti volte consecutive: non è un caso la sua amicizia con Ursula Le Guin e Kim Stanley Robinson.
Vediamo la storia. In un futuro vicinissimo, gli umani tecnodipendenti che saremmo noi sono stati fregati da un fenomeno brutale, l'Arresto appunto, così pragmatico che questo romanzo ha anche le figure (ma non è una graphic novel), per rappresentarlo meglio: le macchine, di qualsiasi tipo, hanno smesso di botto di funzionare. Computer, elettrodomestici, mezzi di trasporto, comunicazioni (la televisione è «la prima a morire»), persino le armi, si sono bloccate, spente. Arrestate, appunto. L'Arresto che le ha paralizzate pare aver paralizzato anche il tempo: tutto questo gran parlare che oggi facciamo di frammentazione, accelerazione, folle velocità che ci leva la gestione dell'attimo dalle mani e dal cuore, svanisce: «Al tempo era stato permesso di ricomporsi. Di fluire nei corpi secondo un ritmo imperturbato». Mica male: che pace, almeno a prima vista. Non fosse che il prezzo da pagare è alto: si torna coloni, agricoltori, gente con ciotole di riso a sostenerla mentre getta le fondamenta di fattorie per chi dovrà lavorare la terra alla vecchia maniera (perché alla fine biologico vuol dire preindustriale e prechimico). Fin qui, la cornice post-apocalittica e le regole del gioco futuribile che Lethem invita a goderci.
Poi arrivano i gustosissimi protagonisti, che nulla hanno a che fare con quelli sospesi e attoniti al bordo della tragedia descritti in Il silenzio di Don DeLillo (Einaudi) o quelli che Amin Maalouf crea per I nostri fratelli inattesi (in uscita il 24 giugno per La nave di Teseo), destinati, dopo un blackout totale per l'umanità, a incontrare un'ancestrale comunità misterica. I protagonisti dell'Arresto somigliano fortunatamente, in modo accattivante e ironico, a quegli umani confusi e sfrontati che siamo noi, proprio qui e ora: Alexander Duplessis (che chiama se stesso «Garzone») è un ex sceneggiatore di successo di Hollywood, rimasto bloccato, dopo l'Arresto, nel Maine dove vive sua sorella Maddy, che possiede proprio una di quelle fattorie biologiche di cui sopra. Tira a campare, interrogandosi su quanto è accaduto, ma più che altro è impantanato in una crisi di identità familiar-culturale che offre lo spunto a Lethem per incursioni citazioniste in cinema a letteratura. L'inevitabile alter ego che arriva a rompere gli equilibri intimisti, e non solo quelli, si chiama Peter Todbaum, fa il produttore, ed è un vecchio amico di Alexander. Sarà Todbaum a introdurre il deus ex machina - mai nome fu più appropriato - che potrebbe cambiare non solo e non tanto i destini dell'umanità (il romanzo non è per niente ecumenico, ma piuttosto solipsistico ed è questo che lo rende esilarante) ma quelli dei due amici, della gente del Maine e della comunità di «motociclisti del Cordone» che presidiano i confini della penisola grazie a un carburante segreto. Si tratta di una supermacchina, bestia «di paurosa ingegneria» dotata di quel fascino di propulsione alieno che solo le prime locomotive esibirono alla genìa umana: mostruosa, sì, come un essere gargantuesco metà animale e metà ordigno meccanico, scavatore nucleare completo di macchinetta per fare l'espresso, chiamata la Saetta Azzurra.
Toccherà, o toccherebbe, ad Alexander detto Sandy capire se e come la Saetta Azzurra pilotata dall'amico Peter possa diventare la chiave di accensione di un mondo post-Arresto, in cui tutto può «tornare a funzionare».
Prima che finisca il romanzo, il Garzone ex creatore di storie/Jonathan Lethem dovrebbe chiudere la parentesi distopica e inventarsi un mondo post-postapocalittico: starà al lettore decidere non tanto se ci sia riuscito, ma se abbia ritenuto questa umanità cui lui stesso appartiene, qui e ora, degna di un tentativo.
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