Cultura e Spettacoli

Monet e gli impressionisti: quasi un ritratto di "famiglia"

In Italia molte delle opere del museo Marmottan raccontano la nascita di un cenacolo intellettuale

Monet e gli impressionisti: quasi un ritratto di "famiglia"

Impressionano ancora, impressionano sempre. Monet, Manet, Degas, Renoir, Sisley, Pissarro, Signac, Corot, Morisot, Caillebotte e Boudin: ottima la formazione schierata dal Musée Marmottan Monet di Parigi sul campo di Bologna, a Palazzo Albergati. Tuttavia, derubricare Monet & co. a usato sicuro per vincere facile in tempi difficili (poche, pochissime le inaugurazioni di questo settembre) sarebbe ingeneroso nei confronti di una mostra che è, letteralmente, incantevole. Monet e gli Impressionisti (fino al 14 febbraio, catalogo Skira) è scandita in due sezioni e un solo (evitabile) intermezzo multimediale: le sale di Palazzo Albergati, elegante dimora che si affaccia su via Saragozza, sono punteggiate da 57 capolavori, alcuni dei quali mai prestati dal museo parigino. Di questi, uno vale da solo il prezzo del biglietto: è il Ritratto di Berthe Morisot distesa che Édouard Manet fece alla pittrice-modella l'anno prima che diventasse la moglie di suo fratello Éugene. Un olio di apppena 26 centimetri per 34: ipnotico e conturbante, modernissimo. Poi, sala dopo sala, s'incontra un'infilata di opere che potrebbero comporre il «perfetto bigino impressionista»: la celebre Passeggiata ad Argentuil di Claude Monet, Ritratto di Madame Ducros di Degas, Buolevard esterni, effetto di neve di Pissarro, Donna con ventaglio di Berthe Morisot, Ritratto di Julie Manet di Renoir. Il percorso espositivo è stato curato da Marianne Mathieu, minuta e volitiva direttrice scientifica del Marmottan, ma lei preferisce dire che «la mostra si è curata da sola: sono tutti quadri che provengono dalle collezioni di famiglia degli stessi Impressionisti esposti». È proprio così.

Il Marmottan, che nasce nel 1934 al 16° arrondissement di Parigi come hôtel particulier di una ricca famiglia di imprenditori e appassionati d'arte, vanta la più grande raccolta al mondo di dipinti di Monet: fu infatti Michel, il figlio minore del pittore, a scegliere quella dimora per il lascito delle tele paterne. Una donazione giunta dopo la decisione di Victorine Donop de Monchy, il cui ritratto di Renoir vediamo in mostra, di destinare al raffinato palazzo parigino i dipinti impressionisti che possedeva, tra cui Il ponte dell'Europa. Stazione Saint Lazare, altro grande classico di Claude Monet. Ogni opera della collezione Marmottan cela una costellazione famigliare: i dipinti di Berthe Morisot sono stati donati al museo dalla figlia della pittrice, Julie Manet, e la di lei nuora, Annie Rouart, ha aggiunto altri suggestivi lavori di Corot. Le tele e i disegni di Paul Signac arrivano nientemeno che dalla collezione privata di Claude Monet li conservava in camera da letto - poi passata all'unico figlio superstite. Vediamo quindi impressionisti di famiglia, ovvero i quadri dipinti e più amati da chi aveva compiuto la rivoluzione della pittura en plein air: li osserviamo nelle prime cinque sale, negli ambienti intimi di Palazzo Albergati, che a lor ben si adattano. Tuttavia, quando bisogna fare i conti con la visionarietà e le ossessioni degli ultimi anni di Monet, servono spazi più ampi e così nei saloni al primo piano sono esposte le sue Ninfee, un assoluto non-finito, e varie versioni del ponte giapponese che il pittore aveva con maniacale cura concepito per il suo giardino nella casa-atelier di Giverny. Due dei quadri virano decisi al rosso: il ponte non si vede quasi più, i classici verde e lilla sono scomparsi, le pennellate nervose fanno domandare a chi osserva se è davanti a un Monet o a un Pollock. L'impressione della luce sul mondo si trasforma alla fine in pura astrazione: le note di Debussy ci accompagnano nell'ultima sala, dove sono esposte Le rose che Monet ritoccò fino a pochi giorni prima di morire, il 5 dicembre del 1926.

Si esce impressionati da questa mostra sugli Impressionisti, così diversa dalle tante che abbiamo visto finora. Qui infatti i capolavori ci sono materialmente e si vedono davvero: non sono francobolli di colore tra una testa e l'altra del pubblico pagante, contro cui dover combattere per aggiudicarsi un posto in prima fila. Il new normal delle mostre passa infatti per gli ingressi contingentati, come vogliono le regole nei musei in seguito alla pandemia: si entra con la mascherina, con mani disinfettate e solo 25 persone ogni venti minuti, il che significa che ci si ritrova davanti agli immensi Iris di Monet al massimo in 6 e che in tutto il percorso espositivo non s'incontrano più di 75 persone.

A chi ricorda le prime mostre impressioniste organizzate da Marco Goldin vent'anni fa in Italia, pare un altro pianeta: a questo proposito, sarà interessante capire come sarà gestita la sua prossima grande mostra dedicata, dopo tanto tempo, a Vincent Van Gogh (dal 10 ottobre a Padova).

«Prima, una mostra così su Monet avrebbe registrato almeno 200mila visitatori: se tutto andrà per il meglio, come lasciano intendere finora le prenotazioni, ne faremo la metà», spiega Iole Siena, presidente di Arthemisia, la società romana che produce l'esposizione a Bologna e che poi la porterà a Shanghai. Il sistema-mostre è in sofferenza: nessun sussidio statale ricevuto, musei e spazi espositivi ancora aperti a singhiozzo, professionisti che lavorano ormai solo a chiamata, tanta cassa integrazione e un futuro da ridisegnare.

Dopo l'era degli eventi-a-tutti-i-costi, si punta sulle mostre-bonbon: centellinate sul calendario, con meno opere (i costi assicurativi lieviterebbero) e meno visitatori per sala.

Non suona poi così male.

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