La Storia è una Fata Morgana, è un miraggio, sapeva anche questo. L'appartamento di Parigi, dove ogni tanto invitava qualche ragazzino per addentare la luce olimpica della giovinezza, era un hangar fuori dal tempo. Dicono che Henry de Montherlant, che negli anni Dieci aveva sfidato i tori nei Pirenei, giocasse a matare i rari amici, nel suo studio.
Poiché la Storia è un miraggio e un'illusione, dopo aver scritto romanzi di vertiginosa crudeltà (la quadrilogia de Les Jeunes Filles), s'era dato al teatro. Nel 1942 La Reine morte strappò gli applausi di Drieu La Rochelle e di Lucien Rebatet, accorsi alla Comédie-Française per ammirare lo schivo amico. Da par suo, Montherlant guardava con un certo ribrezzo all'impennata di svastiche lungo i viali parigini. Fu durante il Governo di Vichy che lo scrittore più austero e autocrate del Novecento decise di scrivere un dramma su Sigismondo Pandolfo Malatesta.
Adorava le contraddizioni di cui il maestro d'armi italiano era l'icona. Violento e compassionevole; sessuomane (si dice che a Fano abbia violato una dozzina di suore, pigliando d'assedio un monastero) ma fedele alla donna idolatrata, Isotta degli Atti; scaltro ma prono a dar credito, per puro coraggio, a chi lo vuole nella fossa; impulsivo e filosofo; capitano d'esercito per la Chiesa sotto papa Eugenio IV e scomunicato da papa Pio II, che lo riteneva un anticristo. Selvaggio nel campo di battaglia divenne signore di Rimini, indossando la corazza, a quindici anni prestava la spada a chi lo pagava di più, eppure spese i suoi denari per la costruzione del Tempio Malatestiano, capolavoro sommo del primo Rinascimento, assoldando Leon Battista Alberti e Piero della Francesca. Luogo pregno di magia, nella navata laterale del Tempio, all'esterno, è incapsulato il sarcofago di Giorgio Gemisto Pletone, l'uomo più sapiente del suo tempo, il grande neoplatonico, che il Malatesta, con la foia del posseduto, era andato a sottrarre dall'artiglio dei Turchi, in Morea.
Soprattutto, il Malatesta fu solo. Sempre. Solo contro tutti. Questo affascinava Montherlant. Come aveva affascinato, un paio di decenni prima più per ragioni filosofiche che caratteriali Ezra Pound: nel 1922 e nel 1923 il poeta era andato fino a Rimini, trascinando con sé un refrattario Ernest Hemingway, per studiare l'epopea del Malatesta e inserirla nei suoi vorticosi Cantos.
Montherlant ricostruisce la dimora del Malatesta a Parigi. Dicono che nel suo appartamento parlasse al vuoto, con indole malatestiana, come se le finestre fossero falangi di soldati. Siamo nel 1943. L'anno dopo la Gestapo perquisisce il suo appartamento. Finita la guerra, gli danno del collaborazionista. «La sola accusa che gli si può muovere è che si è fatto da parte, che non ha preso parte», dirà, difendendolo, Léon Pierre-Quint, influente critico letterario. «Ha preferito restare indipendente, ha preferito conservare la propria libertà: mentre il mondo si divideva in due parti, lui è stato dalla sua parte». Montherlant si sente come Malatesta: tutti gli sono contro. Ma è l'isolamento che rende titanica una vita. La congiunzione con il Malatesta assume aspetti stravaganti: in un articolo del 1969, esaltando Malatesta come «l'eroe solamente di se stesso», «l'individuo solo», l'«eterno accusato», ricorda di avere «qualche goccia di sangue malatestiano, dal momento che un'amica di mia madre, che mi allattò, discendeva dai Malatesta».
Quello stesso anno il Malatesta di Montherlant, scrittore all'epoca piuttosto tradotto in Italia (Malatesta, era stato pubblicato da Bompiani nel 1952, insieme a La regina morta e a Il gran maestro di Santiago, nelle nobili versioni di Camillo Sbarbaro e di Massimo Bontempelli), andò in scena nel luogo in cui era immaginato, il Castel Sismondo di Rimini, con Arnoldo Foà a fare Sigismondo. La prima' teatrale, a dire il vero, fu un mezzo fiasco.
Malatesta, pubblicato nel 1946, andò in scena al Théâtre Martigny di Parigi, nel 1950. In scena, Jean-Louis Barrault, attore olimpico, che andò in deliquio: per lui Malatesta «resterà come una delle opere più importanti di questa prima metà del secolo... è un'opera che eccita». L'opera ebbe una sessantina di riprese e una trasposizione cinematografica, nel 1967. Ma l'eccitabile Montherlant andò in furia: Barrault non capiva nulla di Malatesta («per demolire il lavoro teatrale, bisogna ricorrere ad ogni mezzo»); i francesi in genere dimostrano una «incomprensione quasi generale del carattere di Sigismondo Pandolfo Malatesta».
Miracolosamente in scena cinquant'anni dopo la prima e unica puntata italiana, il Malatesta tornerà al Castel Sismondo di Rimini dal 23 marzo all'8 aprile, con un gruppo di attori di talento (insieme a Gianluca Reggiani, ideatore, regista e Malatesta, ci saranno, tra gli altri, Tamara Balducci e Mirco Gennari), su un testo rivisto per l'occasione (la traduzione di Sbarbaro è per la sola lettura). Il testo, appunto, specie di dramma sacro dal livore barocco, fitto di scene memorabili (il dialogo con papa Paolo II, quello con Isotta) e di frasi da sottolineare per farsi il proprio abbecedario di fieri aforismi («Gli uomini sono una banda di bimbi»; «Dormo meglio quando gli assassini sono assisi nella stanza di fianco»; «Muore soltanto chi pensa di morire»; «Voglio vivere nel centro esatto della mia inquietudine»), è bellissimo.
Nel gran finale, Montherlant si permetta la licenza poetica. Fa morire Malatesta («Muoio e non ero che al principio... Immortalità aiutami!») avvelenato da Porcellio, intellettuale a libro paga, roso dall'invidia. Ecco, la stoccata politica dell'indomabile Montherlant.
Sono i lacchè, gli intellettuali pronti a salire sul carro del vincitore e pronti ad accoltellarlo se la sua stella si offusca, a corrompere la Storia. Sono queste iene a ridurre l'umanità, eroica per indole, a una carcassa. Per questo lui, Montherlant, arroccato nell'impero del proprio ego, fu fedele solo a se stesso.
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