Cultura e Spettacoli

Monumentale, tragico, umano. E Sironi dipinse il Novecento

Una mostra ripercorre tutto il suo lavoro, dal simbolismo alla pittura murale fino agli anni dell'"Apocalisse"

Monumentale, tragico, umano. E Sironi dipinse il Novecento

«Mio zio era un bellissimo uomo, sguardo magnetico, occhi azzurri. Personalità forte. A volte insofferente, ma dopo si addolciva». Romana Sironi, figlia di Ettore, uno dei fratelli dell'artista, ricorda lo zio. La signora, che ha più di ottant'anni, è l'unica superstite tra quanti hanno conosciuto Sironi. E guardando gli autoritratti del pittore nella grande mostra Mario Sironi. Sintesi e grandiosità che inaugura oggi al Museo del Novecento di Milano, ha ragione: aveva qualcosa di magnetico. Che, da vocabolario, significa: «Di singolare intensità e potenza».

«Intensità» e «potenza». Aggiungendo «monumentalità» e «dramma» abbiamo l'essenza dell'opera di Mario Sironi.

Un gigante del proprio tempo fino alla caduta del fascismo. Poi gli anni della solitudine fino alla morte, nel 1961. A lungo tenuto in disparte da critica e accademia per via dell'imbarazzante passato fascista («Sì, è innegabile. Ma già in una lettera del '37, citando il celebre motto Credere, ubbidire, combattere, lo zio commenta: Ubbidire sempre. Combattere molto. Credere poco»). Poi dagli anni Ottanta un nuovo approccio che mette in secondo piano la sua valenza politica e il lento sdoganamento. Quindi la celebrazione definitiva nell'immensa mostra Post Zang Tumb Tuuum: l'arte in Italia dal 1918 al 1943 alla Fondazione Prada di Milano nel 2018, quando Germano Celant, esponendo 44 opere di Sironi disse: «È il più grande del Novecento». Anche se a volte è ancora risucchiato nell'eterna querelle del rapporto fra arte e dittatura... E arriviamo a oggi, con la grande mostra - la prima antologica da 35 anni a questa parte - che qui al Museo del Novecento, nella sua città (Sironi nasce a Sassari nel 1885, vive a lungo a Roma ma sceglie Milano) celebra i 60 anni dalla morte con l'evento espositivo dell'estate.

Undici sale, oltre 110 opere, due anni di lavoro per prepararla mentre slittava di lockdown in lockdown, curata da Anna Maria Montaldo, direttrice del Museo del Novecento, e da Elena Pontiggia, la massima esperta oggi di Sironi, la mostra Sintesi e grandiosità ripercorre il lavoro di un pittore (e decoratore, e architetto, e illustratore, e scenografo, e grafico: la sua è una produzione immensa e multiforme) che ha costruito il Novecento, dal simbolismo al divisionismo, dalla stagione futurista alla metafisica, dalla pittura murale ai tormenti personali del dopoguerra.

Qui attorno ci sono moltissimi Sironi, intesi come opere. E tanti Sironi, nel senso di parenti. Romana Sironi. Suo figlio Giorgio, che con la madre gestisce l'«Archivio Mario Sironi» di Roma). E Andrea Sironi-Strausswald, dell'«Associazione Mario Sironi» di Milano. Divisionismi di famiglia.

Cose notabili della mostra: la durata (è aperta fino al 27 marzo 2022); il fatto che ci siano molte opere, arrivate da collezioni private, che non si vedevano da tempo; un allestimento molto elegante; un percorso scientifico inappuntabile; un catalogo da collezione (edito da Ilisso); il fatto che finalmente, causa Covid, sono state eliminate le estenuanti e inutili conferenze stampa sedute, e si va subito in sala coi curatori.

Ci accompagna Elena Pontiggia, e la lezione è imperdibile. Proviamo a sintetizzarla.

Sala 1: gli autoritratti della giovinezza, dove si capisce che Sironi non dipinge come un pittore, ma come un intellettuale che guarda a glorie e drammi del suo tempo. Sala 2: ecco le opere simboliste, per dire che Sironi non nasce futurista. Ci sono già i paesaggi urbani e i ritratti dei familiari. C'è anche il fratello Ettore Sironi, padre di Romana («Io mi ricordo lo zio da piccolissima, durante la guerra, a Milano, in via Domenichino. Mio padre aveva un sacro rispetto per il fratello. Gli anni '44-'45 furono tragici. Me lo ricordo a Roma, quando studiavo. E poi verso la fine: andavo a trovarlo in clinica. Mi chiedeva del suo grande affresco del '35 all'università La Sapienza, che era stato deturpato per togliere i simboli fascisti... Poi grazie alle foto e lettere dell'epoca che abbiamo in archivio qualche anno abbiamo potuto restaurarlo...»). Sala 3: il momento futurista. C'è lo straordinario Viandante del 1915 - detto il «Cinesino», con il cappello a triangolo - che va a grandi falcate verso la notte. Sala 4: dopo la Grande guerra, il ritorno a Roma; Valori plastici, la conoscenza di De Chirico e Carrà, i manichini, ma sempre umanissimi. Sala 5, dedicata ai paesaggi urbani: forza, solidità, drammaticità e un'idea di energia. Qui si capisce la grandezza assoluta di Sironi. Sala 6: ecco una delle opere più belle, Pandora (1921-22), che dimostra come Sironi, pur usando solo terre, grigi e neri, fosse uno straordinario colorista. Sala 7: da segnalare La fata della montagna, del '28, che in realtà non ha niente di fiabesco ma esprime tutta la potenza della Natura (è un quadro che non si vede dal '73, quando passò dalla mostra di Palazzo Reale qui a Milano). Sala 8: la stagione espressionista, dove si dimostra che l'artista raccontato dai manuali come la massima espressione del Novecento è in realtà un antinovecentista, con un enorme Pescatore dalla carnagione rossa del 1930 con pennellate convulse e una sgocciolatura sul braccio che sembra Pollock. Sala 9: è la «manica lunga» del museo, con il Sironi più vero, più grande, più fascisteggiante, monumentale. Selfie sotto l'enorme cartone del Condottiero a cavallo, 1935, anno XIII dell'Era fascista. Sala 10: caduto il Regime, il ritorno al cavalletto. Spicca un Lazzaro che, forse per la prima volta nella storia dell'arte, non risorge ma rimane oppresso dalla pietra tombale. Nichilismo, buio, disperazione. Sala 11, l'ultimo decennio: un piccolo Paesaggio con case (1955) del tutto inedito e come sfondo un'inquietante, paralizzante muraglia. È l'uomo (e l'artista) che non più fare nulla? Poi le opere trovate nel suo studio al momento della morte, fra cui il quadro del '61 intitolato Apocalisse. Il grande pittore di architetture che non ha mai progettato città termina la sua vicenda umana e artistica dipingendo la distruzione cosmica di una civiltà. E così si capisce la sua frase posta a inizio del percorso: «L'arte non ha bisogno di riuscire simpatica. Esige grandezza».

Anche nella dissoluzione.

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