Non è mai stato un savaronarola della semiotica, anche se l'ha studiata e, poi, insegnata nel suo periodo d'oro. Paolo Fabbri ha scritto importanti libri di semiotica, ma non ne ha mai presentato le tesi con quell'ardore dogmatico che ha caratterizzato molti suoi colleghi, affini negli studi. Bisogna ricordare che negli anni Settanta la semiotica era una verità: chi si azzardava dall'uscire dai suoi schemi interpretativi, per parlare di una poesia, di un racconto, di un'opera d'arte visiva, era giudicato con disprezzo o, se si preferisce, col distacco da parte di chi sa come davvero si deve procedere nell'analisi senza incorrere in banalità argomentative. Quali erano queste banalità? Quelle della nostra (occidentale) tradizione critica, che si valeva di percorsi storici, sociologici e di una linguistica che intendeva cogliere l'intreccio simbolico e metaforico della parola, dell'immagine. Insomma, diciamo così, una linguistica non alla De Saussure, vero padre (e come accade ai padri non sempre riconosciuto) della semiotica, ovvero scienza dei segni.
Era una grande ambizione: un testo è considerato un insieme di segni linguistici che va smontato per cogliere le sue strutture, non interpretato per coglierne la bellezza, i sentimenti, le evocazioni. Anzi, la bellezza era considerata una banale parola vuota, frutto di fraintendimenti psicologici e ideologici. Mai nessuno è stato tanto consapevolmente nemico della bellezza quanto i semiologi. Smontare un testo, proponeva la semiotica, proprio come si smonta il motore di una macchina per vedere quali pezzi funzionano e quali da buttare via. Inevitabile che la semiotica rappresentasse un grande Amen su tutta l'imponente tradizione critica letteraria e artistica della tradizione occidentale. E per certi aspetti i migliori semiologi hanno provocato un salutare repulisti nei confronti di quei critici che, per parlare di un testo, si sentivano in dovere di ritornare ad Adamo e Eva con interminabili e inutili riferimenti storici, oppure si servivano di frusti sociologismi di maniera (un esempio per tutti: la semiotica fa piazza pulita delle variegate e pittoresche interpretazioni estetiche marxiste e quelle che ad esse si richiamavano).
Insomma, chi abbracciava in quegli anni la semiotica aveva vita facile sia come critico sia come candidato a una cattedra universitaria. Ecco, allora, che fare i semiologi più semiologi del re (in Italia Umberto Eco, in Francia Roland Barthes e Algirdas Julien Greimas) aveva una sua convenienza.
Paolo Fabbri, pur avendo studiato con i vari Barthes, Greimas, collega di ricerche accademiche con Eco, aveva della semiotica una visione strumentale, duttile, al servizio delle sue passioni culturali (come si può leggere nell'agile volume Vedere ad Arte. Iconico e Icastico, Mimesis 2020). La metodologia semiologica consentiva a Fabbri di avvicinarsi con originalità alla comunicazione di massa, al linguaggio del potere politico, al messaggio pubblicitario senza ridondanze sociologiche o ideologiche, ma molto attento alle strutture espressive dei linguaggi (spesso con gradevole ironia) per farli comprendere anche al lettore non specialistico.
In questi anni, la
semiotica è tornata ad essere una delle possibili forme di lettura dei testi, senza più pretese egemoniche sulle altre modalità della critica e, proprio per questo, i libri di paolo Fabbri appaiono oggi più attuali di ieri.
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