Un museo del fascismo? Serve a evitare di creare miti

Il rischio è che per evitare la apologia e il nostalgismo si butti l'occasione di educare le nuove generazioni

Un museo del fascismo? Serve a evitare di creare miti

Del Museo sul fascismo non se ne fa nulla. Era scontato. L'idea avanzata dai consiglieri comunali del movimento Cinquestelle della Capitale era morta ancor prima di vedere la luce. S'è incaricata prontamente di sotterrarla la loro sindaca, Virginia Raggi. Colpa dell'estemporaneità, dell'improvvisazione e di una sospetta strumentalità politica che l'accompagnava. Era una proposta destinata comunque ad essere sotterrata dalla prevedibile levata di scudi che puntualmente accompagna ogni proposito di musealizzare il passato regime. Il problema sollevato ci sembra, però, troppo importante perché sia liquidato sbrigativamente.

Nessuno ha da obiettare alcunché, anzi tutti caldeggiano il proposito, quando si sostiene la necessità di far debitamente conoscere, soprattutto ai giovani, la tremenda vicenda del totalitarismo fascista: «Chi non conosce il passato è l'ammonimento che risuona di continuo è destinato a ripeterlo». Il problema è il museo. Si è consolidata infatti e a ragione - l'idea che adottando una siffatta modalità di narrare il passato sia inevitabile un esito celebrativo. Ricorrente sì, ma non inevitabile. Tutto dipende da come si tratta il tema, da quali strumenti conoscitivi si offrono al visitatore per formarsi un giudizio critico sull'accaduto. Si può per questa via, puntando sul velo di commozione che immagini di un lontano passato facilmente evocano, suggerire la nostalgia dei bei tempi perduti, convincendosi che in fondo «Si stava meglio quando si stava peggio», addirittura che, tutto sommato, il Duce aveva fatto anche delle «cose buone» (bonifiche, reti assistenziali, colonie, eccetera).

Si può viceversa, anzi si deve, mettere in luce come repressione, violenza, persecuzione razziale, nazionalismo aggressivo, destino di guerra non siano stati incidenti di percorso ma il risultato inevitabile di una vocazione pienamente coltivata e strenuamente perseguita.

Non si può d'altro canto negare che l'intreccio di violenza, sangue e morte che caratterizza l'intera storia del Ventennio eserciti un richiamo sul largo pubblico come poche altre pagine della nostra storia nazionale; un richiamo troppo forte perché resti inevaso. L'alternativa è che si lasci il compito di offrire una risposta al nostalgismo neofascista. Basta avere una conoscenza anche occasionale dei tanti circuiti attraverso i quali si coltiva - e si perpetua - il mito mussoliniano e si esalta in particolare l'epopea dell'ultima sua stagione repubblicana, come fosse un autentico «crepuscolo degli dei», per rendersi conto che una memorizzazione del passato avviene, eccome, rigorosamente in forma celebrativa. La Piccola Caprera di Ponti sul Mincio, la Fondazione Rsi di Terranuova Bracciolini, L'Ultima Crociata, l'Associazione nazionale dei caduti e dispersi della Rsi di Milano, solo per citare i più noti, sono i consolidati punti di ritrovo attraverso i quali si trasmette l'inossidabile convinzione della bontà della causa fascista.

È di questi giorni la notizia dei 970 labari della marcia su Roma sottratti all'Archivio Centrale dello Stato, a Roma. Probabilmente si tratta di un furto di trafficanti di cimeli fascisti in cerca di facili guadagni. Ma a suggerirlo può anche essere il culto di un passato che si vuole celebrare e magari riproporre. La memoria si costruisce anche come regolarmente avviene nel mondo nostalgico - con semplici cimeli, oggetti vari come accendini e portachiavi recanti l'immagine del manganello o del fascio littorio, persino con fiaschi di vino Nero con cui brindare alla figura del rimpianto Benito Mussolini, per non dire di immagini e busti del Duce da esporre in bella evidenza nella propria abitazione o addirittura in luoghi pubblici.

Limitarsi a confinare e tollerare - queste pratiche diffuse nel cono d'ombra del disprezzo è il modo migliore per impedire la possibilità di vaglio critico di una suggestione che comunque continua a circolare nel nostro Paese. O vogliamo persistere a coltivare l'illusione che la nostra scuola, nelle condizioni in cui è, possa da sola rimediare al vuoto di conoscenza e di studio del Novecento cui sono per lo più condannate intere generazioni di giovani?

La forma museale a noi sembra la più adatta ad avvicinare un pubblico che difficilmente affronterebbe la complessa questione del fascismo con strumenti conoscitivi

più impegnativi. Non dimentichiamoci che l'Italia è la nazione europea che legge meno. Siamo proprio sicuri che per sventare il pericolo di dar man forte al nostalgismo fascista sia meglio sfuggire alla sfida di un Museo?

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