Daniele Abbiati
Lo scrittore canadese Denis Thériault è laureato in Psicologia. E di psicologia, nell'analizzare i suoi personaggi, ne usa molta, anche perché ha una predilezione per quelli che i non addetti ai lavori chiamano «fissati» e che invece chi ai lavori è addetto chiama portatori di «ruminazione mentale». La ruminazione mentale consiste nel girare intorno, in un cerchio ossessivo, ad alcuni pensieri senza sapere come uscirne. È chiaro che la ruminazione (tecnicamente detta anche «rimuginio» dagli psicologi) sia spesso l'anticamera dei disturbi della personalità bordeline o della depressione.
L'opprimente circolarità dei pensieri è visivamente resa dal francofono Thériault in Le facteur émotif, emotivamente rititolato nel 2016 da Frassinelli Storia di un postino solitario. La chiave del romanzo è, appunto, un cerchio. Che potrebbe essere scambiato per una banale O maiuscola se non fosse, nel buddhismo zen giapponese, molto di più: la sintesi dell'«illuminazione creatrice».
Che c'entra il Giappone con un postino di Montréal, il protagonista del libro? C'entra, perché gli haiku, cioè i componimenti poetici giapponesi di 17 sillabe, sono uno dei pensieri fissi del postino. Ma il suo primo pensiero fisso è una tale Ségolène che sta in Guadalupa e intrattiene un rapporto esclusivamente epistolare tutto a base di haiku con il montrealese Grandpré, quello che, appunto, scandisce le proprie lettere all'amica con le O maiuscole. E come fa a saperlo, il nostro postino Bilodo? Semplice, oltre a un nome da gnomo, ha la fissa (la «ruminazione») di spiare le vite altrui aprendo e leggendo le loro lettere per poi richiuderle e consegnarle al destinatario. Così Bilodo si è imbattuto nella «storia» fra i due, e siccome oltre alle parole gli è capitata sotto gli occhi una foto dell'esotica e sensuale Ségolène... Detto che Bilodo anela a prendere il posto di Grandpré e che Grandpré muore in un incidente stradale, e ferma restando la questione della circolarità... non aggiungeremo altro.
Da un cerchio all'altro, passiamo a L'Iguane (che Frassinelli, sempre lei, ribattezza Il principe della città sommersa, pagg. 184, euro 17,50, tradotto, come il precedente, da Margherita Belardetti, da martedì prossimo nelle librerie). Qui Thériault mette da parte le atmosfere e i toni un po' bamboleggianti in stile «favoloso mondo di Amélie» per affrontare un tema che di più seri non ce n'è: la perdita della madre. Del resto che cosa esiste di più circolare della madre? È lei che reitera la vita, è lei che tiene la vita in vita, generando figli. Qui di figli ce ne sono due, sugli undici anni, il narratore e il suo amico Luc. La madre del primo, a causa di un incidente in motoslitta in cui ha perso il marito, vegeta in un letto d'ospedale, e quella del secondo è (fino a prova contraria) annegata. Il narratore vive con i nonni ancora in gamba, Luc con un padre il quale non fa altro che bere e pestarlo. I ragazzi abitano in un paesino sul golfo di San Lorenzo, nel Canada orientale, un posto che sarebbe incantevole se non fosse, per i due undicenni, una specie di prigione da cui, come spesso fanno i pre-adolescenti, tentano di evadere con la fantasia. Ogni cala può essere una stanza delle meraviglie, ogni conchiglia un messaggio proveniente da un mondo subacqueo sconosciuto, e un'iguana imbalsamata diventa una divinità. Alla quale chiedere, ovviamente, la più bella delle grazie: restituire loro le rispettive madri.
Questa sì che è una «ruminazione mentale» degna di perderci la testa, sottintende il cinquantottenne Thériault, abilissimo a calarsi nelle menti dei due giovanissimi e a reggere il timone della narrazione, conducendo il naviglio del romanzo in un drammatico gorgo. Perché, circolarmente, tutto nasce e tutto muore nell'acqua.Anche in quel triangolo canadese di oceano che per il narratore e per Luc è la palude Stigia da solcare per giungere all'Oltretomba.
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