In copertina ha la canotta bianca, il corpo massiccio, la fronte ampia; è seduto su un divano di lusso e punta il fucile contro il fotografo. Sappiamo come va a finire la storia. Ernest Hemingway, questo Ercole della letteratura occidentale, che a due anni, così bercia la leggenda, quando gli chiedono di cosa ha paura risponde «di niente», rivolgerà il fucile verso di sé, ben piantato nella gola. Siamo a Ketchum, nell'Idaho, è il 2 luglio del 1961. Hemingway piange spesso, è depresso, subisce ripetuti ricoveri, gli fanno l'elettroshock. Tenta di uccidersi. L'ultima moglie, Mary Welsh, nasconde i fucili di Ernest in cantina. Lo scrittore trova la chiave, scende in cantina, piglia un fucile. Pum.
Così muore il più mitologico degli scrittori del Novecento, Premio Nobel per la letteratura nel 1954. Il padre, Clarence Edmonds Hemingway, per tutti «Ed», medico di professione, aveva svezzato Ernest all'arte della pesca, all'amore per la natura. Nel 1928 «Ed» si spara in testa. Pochi mesi dopo Hemingway, che è già lo scrittore di Fiesta - che non piacque ai genitori - consegna il manoscritto di Addio alle armi, intasca 16mila dollari, salda i debiti del padre e foraggia con un assegno mensile la madre. «Ossessionato dalla morte, diceva muscolari e infantili bugie; ha speso enormi somme di denaro, ha sofferto una lunga serie di dolori fisici; è stato egoista e afflitto da manie di grandezza; cambiava umore all'improvviso, selvaggiamente; si è innamorato di donne sbagliate», questa è la scheda psichica stilata da Mary V. Dearborn, che di mestiere fa la biografa (ha raccontato le vite di Henry Miller, di Norman Mailer, di Peggy Guggenheim), e ha appena compiuto l'impresa più difficile, stilare, in 740 pagine, la «prima biografia scritta da una donna» di Ernest Hemingway (stampa Knopf, dollari 35).
Ne viene fuori il ritratto di un titano sconfitto, un uomo ossessionato dalla virilità - «voleva a tutti i costi sapere quanto ce l'aveva lungo Scott Fitzgerald» - per nascondere la propria sotterranea omosessualità - sbandierata, per altro, da quella lesbica di Gertrude Stein - chiamato «Pig», maiale, da Martha Gellhorn, la sua terza moglie, perché chi lo incontrava, negli anni Quaranta, poteva ammirarlo «grosso, sporco, con il solito paio di luridi calzoni bianchi e camicia bianca». Un ballista nato, Ernest, che vantava imprese militari mai compiute - fu arruolato come autista d'ambulanza, ci vedeva male - e acrobazie erotiche del tutto astratte, e che deve gran parte delle sue fortune letterarie a Ezra Pound, conosciuto a Parigi, nel 1922 - «lo riteneva un maestro, gli insegnò a scrivere» - e a Maxwell Perkins, editor dal fiuto d'oro, che montava i suoi testi nel modo editorialmente più opportuno. Sfoggiando una folgorante serie di documenti inediti, la Dearborn ricostruisce il rapporto obliquo tra Hemingway e la madre, Grace Hall, cantante di talento - debuttò al Madison Square Garden di New York sotto la direzione di Anton Seidl, all'epoca direttore della New York Philharmonic, già collaboratore di Richard Wagner - «donna eccezionale, espansiva, generosa, amante della natura. Quando entrava in una stanza, tutti si accorgevano di lei». Carol, la sorella più giovane di Hemingway, ricorda che «vivere con Mamma era uno spasso, pareva di stare sempre su un palcoscenico». Tipa strana, Grace: a due anni veste Ernest come una bambina, l'anno dopo si vanta che il figlio «ha maneggiato per la prima volta una pistola, ed è bravissimo», qualche anno dopo fa un favore all'umanità leggendo al pupo Stevenson, Dickens, Mark Twain.
Ernest - a questo punto il dottor Freud va in brodo - ha avuto dei rapporti piuttosto tormentati con la mamma: nel 1927 scopre leggendo una rivista che Grace si è messa a fare la pittrice. La cosa lo manda in bestia. Grace, in un accesso di rabbia, lo incolpa della morte del padre, come nella più canonica delle tragedie greche. Hemingway, specie di Oreste moderno, ricambia evitando il funerale della mamma, che muore nel 1951, mentre lui sta terminando Il vecchio e il mare. Con piglio sinuosamente voyeuristico, con l'ansia di castrare l'icona, la Dearborn sintetizza così la cartella clinica di Hemingway, sul finire degli anni Cinquanta: «aveva una ferita tremenda dietro l'orecchio destro, una spalla lussata, l'intestino devastato, due vertebre schiacciate, il fegato e i reni danneggiati, l'udito alterato, l'occhio destro quasi cieco. Perdeva sangue dalle urine e aveva lo sfintere paralizzato». Pare da ricoverare la biografa più che «Papa», il gigante che «ha modificato il nostro modo di pensare e di capire la letteratura e di vivere la vita; ha cambiato il modo in cui affrontiamo la morte; ha cambiato il nostro linguaggio; ha cambiato il modo in cui guardiamo a Parigi, agli Stati Uniti, alla Spagna, all'Africa, a Cuba, a Oak Park» (ancora la Dearborn). Hemingway, sonoramente, non sopportava due cose: la vecchiaia che lo dilaniava e il talento, che se ne era andato un paio di romanzi prima. Non è sufficiente, nel gennaio del 1961, l'invito in carta nobile di JFK alla cerimonia di insediamento presidenziale per salvare Ernest dalla cupezza, dal desiderio di morte.
Il succo della biografia, più che la militare precisione cronologica con cui viene ricostruita l'esistenza quotidiana di Hemingway, è proprio qui: Ernest ha costantemente raccontato la morte. Basta leggere le venti pagine e poco più di Le nevi del Kilimangiaro, che valgono quell'altro libro epocale sulla fine e sui momenti radicali e radiosi, La morte di Ivan Il'ic di Lev Tolstoj, per capire tutto. «Perché non ne sappiamo ancora abbastanza di Papa Hemingway», titolava USA Today parlando della biografia della Dearborn.
Dall'altra parte dell'Atlantico sono già tre i libri usciti nel 2017 su Hemingway, che hanno governato le pagine dei più importanti giornali: uno che ricostruisce i rapporti tra lo scrittore e John Dos Passos, di James McGrath Morris (The Ambulance Drivers), l'altro che rivela i probabili legami tra «Papa» e i servizi segreti sovietici (Writer, Sailor, Soldier, Spy, di Nicholas Reynolds), infine questo. Il mito di Hemingway, il gigante fragile e contraddittorio, lo scrittore dall'esistenza infinita, è più forte che mai.
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