Sotto sotto, là sotto, non ce la caviamo così male. Secondo un vecchio luogo comune la letteratura erotica, in Europa, parlerebbe francese. E se invece fossero più bravi gli italiani? Questione di posizioni.
Prendiamo la nuova antologia curata da Guido Davico Bonino intitolata - appunto - Là sotto (Lindau) e che raccoglie «canzoni», sonetti, novelle e racconti licenziosi scritti nei primi quattro secoli della nostra storia letteraria, tra il Duecento e il Cinquecento. A sfogliarla, anche con una mano sola, si sente innalzare il nostro orgoglio nazionale. E i sensi s'irrigidiscono davanti a pagine che tracimano sessualità, erotismo e dissoluzione.
La lettura è istruttiva, e consigliabile: come fa notare il curatore non solo si propongono situazioni piccanti, al limite talvolta del credibile, ma si ispirano prestazioni che neppure il più spericolato manuale di stampo positivista (le opere di Paolo Mantegazza dedicate allo studio fisiologico del piacere che i padri dei nostri nonni tenevano nascoste nelle loro biblioteche) era in grado di suggerirci. Attenzione. Non stiamo parlano solo dei grandi protagonisti della patrie lettere: Boccaccio, Lorenzo il Magnifico, Ariosto, tutti sdoganati da qualsiasi antologia scolastica (sebbene rileggere alcune novelle del Decameron, come quella dove don Felice «si dà buon tempo» con la moglie del bigotto Puccio di Rinieri, oppure la Canzona delle zibetto che sta «in luoghi bassi, e chi 'l tocca con mano,/ rade volte ne suole uscir poi netto», c'è ancora di che eccitarsi). Ma soprattutto di sontuosi «minori», come Rustico Filippi (1230 ca. - 1300 ca.), detto «il Barbuto», maestro del «vituperium» e del linguaggio osceno («Quando ser Pepo vede alcuna potta,/ egli annitrisce sì come distriere;/ e non sta queto: innanzi salta e trotta,/ e canzisce, che par un somiere») o Antonio Pucci (1310 ca. - 1388), campanaio del Comune di Firenze e rimatore ardito oltre che amatore instancabile («A poco stante ella si fu spogliata,/ nel letto se n'andò la graziosa,/ la qual vi dico ch'io ho tanto amata:/ com'io la vidi tanto dilettosa,/ dov'ell'entrò i' l'ebbi seguitata/ e allor colsi una aulente rosa;/ e fu sì graziosa/ a lasciar correr me a mio dimíno/ che più d'otto ne colsi anzi mattino»).
Beffe, licenzie et amori... Il fortunatissimo filone cinematografico decamerotico nasce qui. Quando le donne si chiamavano madonne e quando si novellava di Sollazzevoli storie di mogli gaudenti e mariti penitenti... Sono storie di frati viziosi, di cortigiane vogliose, femmine dissolute e homini furbi e infoiati. La lingua è il volgare, ma più allusiva che scurrile. Con vertici assoluti di animale sessualità. Andate a leggere, nel Novellino, la storiella di messere Migliore delli Abati. Il quale spiega come le dame non debbano usare l'aloe e l'ambra, perché tolgono l'odore naturale: «che la femina non vale niente se di lei no viene come di luccio passetto». Dicendoci molto anche sull'igiene femminile di qualche secolo fa...
Giumente, montoni, spose novelle, dottori «de medicina», frati gaudenti, penitenze grottesche e reliquie taumaturgiche (chissà perché sempre se appoggiate su qualche particolare parte del corpo...). Ecco il materiale «carnale» di tanta nostra dimenticata letteratura delle origini. Poggio Bracciolini, alto funzionario del Vaticano, e le sue quattrocentesche Facezie ad esempio (e si segnala quella che ha come protagonista «Il monaco che infilò il membro nel buco di una tavoletta» o «Il frate che scopò una comare grazie ad astuto trovato»). Oppure Le piacevoli notti di Giovanni Francesco Straparola (1480 1557) o Le cene di Anton Francesco Grazzini detto il Lasca (1503 - 1584) o il Fuggilozio del napoletano Tommaso Costo (1545 ca. - 1611), storico civile e militare che però come novellista non poteva, secondo le migliori consuetudini, esimersi dall'occuparsi delle «malizie delle femmine e delle trascuraggini di alcuni mariti con le loro mogli».
L'antologia è da maneggiare con cura. È vitale, umorale, lasciva, sboccata e boccaccesca. E poetica. Pensando ai numerosi candidati al famoso premio annuale per la peggior scena erotica della letteratura, c'è da godere davanti alle metafore sessuali che Giovanni Sercambi (1348 - 1424) semina nel suo Novelliere. Come quando narra le avventure di monna Dolciata alla quale un giorno - «pensando che 'l nome seguisse l'effetti» - venne «voglia» di un giovane chiamato Cazzutoro. O a quelle che Giovanni Gherardi da Prato (1360ca.
- 1441) consegna al suo Paradiso degli Alberti dove, leggendo la straordinaria novella del mugnaio Farinello, si comprende come le «femine» in quanto a voglie e ad astuzie «trapassano», e di molto, i maschi. «E ancora pare che Amore porga a loro di nuovi ingegni e malizie».
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