Otto settembre La versione (privata) del generale Roatta

Luca Fazzo

Avrebbe potuto mostrare, o almeno simulare, qualche tormento: per i civili abbandonati sotto le bombe, per i soldati lasciati allo sbando, per quelli immolatisi a Cefalonia; qualche resipiscenza per la propria fuga indegna, insieme al Re e a Badoglio. Invece il generale Mario Roatta si preoccupa del sarto che tarda a cucire la sua divisa, s'allieta del vino di Jerez e guarda le donne: «Grassottella, piacente ed allegra». Ma in questo sta la virtù dei diari del militare che fu Capo di Stato maggiore nei mesi dell'armistizio, riapparsi tra le carte del figlio (Mario Roatta, Diario. 6 settembre-31 dicembre 1943, Mursia, pagg. 270, euro 21). Roatta non si preoccupa di costituirsi alibi morali, non finge tormenti che non ha. Racconta, minuziosamente, la vita e i pensieri di un alto ufficiale nella fase cruciale della guerra. Ed è un documento raggelante, perché racconta dall'interno l'inconsistenza di una classe dirigente in balìa degli eventi, stretta fra la morsa dei tedeschi e l'avanzante conquista angloamericana.

Si comincia il pomeriggio del 6 settembre 1943 e si finisce il 15 novembre 1944. L'indomani Roatta verrà arrestato con una serie di sedici accuse: dai crimini di guerra in Jugoslavia all'abbandono di Roma ai tedeschi senza combattere. Trasferito dopo l'arresto in ospedale, evade e ripara in Spagna, dove mette a frutto i legami stretti durante la guerra civile, quando era alla testa dei reparti italiani. Nel frattempo, una dopo l'altra, le accuse contro di lui cadono. Torna a morire in Italia nel '67.

Il diario di Roatta descrive il clima di totale approssimazione in cui è firmata e annunciata la resa agli Alleati: con lui medesimo che alle 18,30 dell'8 settembre garantisce ai generali tedeschi Toussaint e Westphal che l'Italia continuerà a combattere accanto al Reich, e scopre che nello stesso istante Radio Londra sta dando notizia dell'armistizio. Colpa, scrive Roatta, di Eisenhower, che aveva imposto di firmare l'armistizio in giornata, minacciando in caso contrario di rendere note le trattative e bombardare Roma. La reazione dei vertici politici e militari all'ultimatum di «Ike» merita di essere riportata per intero: «In una discussione piena di incertezze e di dubbi, si propendeva per non accettare l'odioso ricatto di Eisenhower. Il Re avrebbe sconfessato il governo e si sarebbe continuata la guerra accanto alla Germania. Senonché uno è entrato a dire che Eisenhower aveva cominciato a parlare alla radio annunciando la conclusione dell'armistizio. A tale notizia il consesso decise che ormai non c'era più altro da fare che abbozzare».

Il Re, Badoglio e i generali «abbozzano», e preparano la grande fuga. «Non conviene che i tedeschi catturino Sua Maestà e il governo, perché in questo modo sarebbe molto più agevole per loro nominarne uno nuovo che sarebbe l'unico esistente»: è l'unica ombra di giustificazione che Roatta affida al diario. Brucia le carte del suo archivio e parte in auto col suo seguito verso Pescara, e poi in nave verso Brindisi. Da qui, sotto la protezione degli Alleati, pretende di dirigere a colpi di fonogrammi i reparti che lui stesso ha abbandonato: «Ordino alla Settima Armata di fucilare senz'altro i comandanti dei reparti che non reagiscono convenientemente alle violenze germaniche», scrive. «Il 18º Corpo d'armata ha raggiunto accordi coi tedeschi che appaiono inspiegabili ed ignominiosi».

Il 9 novembre Roatta viene destituito da capo di Stato Maggiore, su richiesta degli americani, pressati a loro volta dal leader jugoslavo Tito che lo accusa di aver ordinato atrocità durante la guerra.

«Io ho agito agli ordini del Comando Supremo e del governo, alle porte d'Italia, e tutto ciò che ho fatto era ed è perfettamente noto», è l'autodifesa che Roatta affida al diario il giorno successivo. Poche righe dopo: «Il generale Moriggi mi manda cinque uova».

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