Pansa racconta i bambini servi mandati a lavorare in campagna

di Giampaolo Pansa

I ragazzini partivano da casa prima dell'alba, a piedi o sopra un carro trainato da un asino e condotto dal padre. Arrivati sulla piazza del municipio quando iniziava a fare chiaro, i bambini venivano schierati l'uno accanto all'altro. Quel testimone ricorda: eravamo una sessantina e tutti sapevamo bene che cosa sarebbe accaduto di lì a poco.

Il rito era sempre lo stesso. L'esame fisico e i toccamenti dei padroni delle cascine. La scelta del ragazzo da affittare. Il contratto per sei mesi tra il genitore e chi lo prendeva in affitto. Infine il passaggio del denaro.

Ogni genitore istruiva il figlio su come doveva comportarsi nei confronti del possibile affittuario. Il primo consiglio era di tener duro quando il padrone gli premeva con forza la mano sulla spalla, per provare se era robusto o no.

Al ragazzino era stato insegnato come rispondere con furbizia alle domande che gli venivano fatte: hai già governato del bestiame, quanti anni hai, quanti chili sei capace di alzare con una mano e quanti con entrambe le mani. Nel frattempo, il padre vantava le qualità del figlio: sa fare di tutto, non conosce la fatica, è di bocca buona, mangia poco, può lavorare dall'alba al tramonto senza stancarsi né protestare.

Il testimone scovato da Bianco raccontò che cosa gli era accaduto dopo la firma del contratto d'affitto. Accompagnato da un saluto sbrigativo del padre, seguì subito il nuovo padrone nella cascina dove sarebbe rimasto a lavorare sino a tutto agosto. Arrivato qui, l'agricoltore gli indicò dove mettere le sue robe, ossia quel poco di vestiario che si era portato da casa. Indumenti da veri poveri. Cose rimediate e rattoppate dieci volte. La merce giusta per il luogo assegnato al servo: la stalla.

Il testimone raccontò a Luciano Bianco: «Avevo pensato che il contratto steso da mio padre prevedeva che dormissi in casa, dentro una culla grande, come si usava allora. Invece il padrone mi mandò subito dove stavano le mucche. Dicendomi che da adesso in poi sarei vissuto lì. Rassegnato, aggiustai sopra una brandina le poche cose che mia madre mi aveva consegnato prima di partire».

E quella non fu l'unica sorpresa.

Quando arrivò il momento di sedersi a tavola, il servo bambino scoprì di non essere ammesso in casa neppure per il tempo di pranzare: «Il mangiare me lo posavano sul davanzale della finestra della stalla: un po' di brodaglia o di minestra, qualche volta con un pezzettino di salame e una pagnotta, due volte al giorno».

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