Petacco, il revisionista che faceva capire a tutti i problemi della Storia

Giornalista e saggista, indagò persone e fatti «scomodi» senza guardare alle ideologie

Petacco, il revisionista che faceva capire a tutti i problemi della Storia

Se ne è andato d'improvviso, Arrigo Petacco, come d'improvviso gli venivano le idee per i suoi libri o per i suoi programmi di divulgazione storica. Chiamava l'editore, spesso la Mondadori, e proponeva argomenti che, specialmente negli anni Settanta e Ottanta, mettevano i brividi perché erano controcorrente come il (bello) Dal Gran Consiglio al Gran Sasso, una storia da rifare scritto con Sergio Zavoli nel 1973 oppure Dear Benito, caro Winston. Verità e misteri del carteggio Churchill Mussolini (Mondadori, 1985). Era, questo spezzino di Castelnuovo Magra, un giornalista tutto d'un pezzo che poi è diventato saggista e sceneggiatore, iniziando al Lavoro di Genova con la direzione di Sandro Pertini, facendo l'inviato speciale e infine dirigendo pure La Nazione di Firenze tra il 1986 e il 1987 e il mensile Storia Illustrata, che diventò in qualche modo la palestra nel quale esercitare la sua vocazione. Arrigo Petacco era un divulgatore e lo confermò anche in tv curando programmi di grande successo come Da Caporetto a Vittorio Veneto (1968) o La battaglia di Normandia (1969). Aveva la vocazione liberale di accogliere tutti i punti di vista (anche quelli contrari) e di fuggire i luoghi comuni, essendo lui di una generazione che fece i conti con quelli fascisti e quelli comunisti, praticamente il meglio (si fa per dire) del Novecento. Perciò lo attiravano le storie oblique, quelle scritte solo in parte o solo da una parte, e aveva la bella voglia, oltre che la chiarezza, di raccontare da capo a fondo. In qualche modo, il suo era un impeto televisivo, quasi da Quark, che lo portò a raccontare, tanto per dire, la figura di Joe Petrosino, l'ufficiale italoamericano che combattè contro la mafia (sul quale fu girato anche uno sceneggiato Rai di buon successo) o Il prefetto di ferro. L'uomo di Mussolini che mise in ginocchio la mafia, che ispirò il film di Squitieri del 1977. Insomma, navigava libero e così è rimasto fino all'ultimo sia nelle sue lucide apparizioni televisive (ad esempio a Porta a Porta) che nei dialoghi con gli amici, ai quali ha dispensato ilarità fino all'ultimo nonostante i malanni sempre più opprimenti. Dopotutto, basta leggere libri come Il comunista in camicia nera. Nicola Bombacci tra Lenin e Mussolini (Mondadori 1996) per rendersi conto di quanto a Petacco piacesse sparigliare le carte, indagare dove si faceva finta non fosse necessario, e poi consegnare al lettore (o telespettatore) tutti i dettagli per tirare le proprie conclusioni. Senza avere la sarcastica lucidità di Montanelli, o l'impeto romanzesco di altri scrittori di storia, Petacco si è calato nelle penombre del Novecento, specialmente quelle del Ventennio e della Seconda Guerra Mondiale, sempre con piglio garbato e volontà di ricerca. In La storia ci ha mentito. Dai misteri della borsa scomparsa di Mussolini alle «armi segrete» di Hitler, le grandi menzogne del Novecento (Mondadori, 2014), ha provato a smontare alcune leggende prima che la vulgata le consacrasse come verità storiche. Ma rimase, per carità, sempre equidistante, mai schierato, anche a costo di sopportare critiche persino esagerate (come quando affrontò il caso Matteotti in una intervista con il blog di Beppe Grillo nel 2014: «Mai creduto che Mussolini avesse ordinato il delitto»).

In poche parole, dopo Montanelli e Cervi, ora con lui se ne va forse l'ultimo dei grandi divulgatori di una storia italiana che le ideologie hanno provato a scrivere a propria immagine e somiglianza, sperando di non incontrare mai giornalisti e saggisti di razza capaci di smentirle.

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