Non si canta, né si suona: vietato fare musica. Proibito stare affacciati o per strada. Le donne devono indossare i guanti. E se stanno nella stessa stanza con gli uomini, per loro fischiano 40 frustate. O c'è la lapidazione direttamente: dipende dall'umore della polizia. È quanto accade nei territori dove vige la legge dell'estremismo islamico. Ed è quanto si vede, spiegato con doloroso realismo, in Timbuktu (dal 12 con Academy Two, in 40 copie), discusso film di Abderrahmane Sissako, nominato agli Oscar come miglior film straniero, in corsa per la Mauritania. Un film che in Francia, all'indomani del massacro di Charlie Hebdo , è stato vietato nelle sale. E pensare che al festival di Cannes, quest'anno, ha vinto il Premio della Giuria ecumenica. Intimamente legato alla vita stessa dell'autore africano, che qui scrive una lettera d'amore all'islam della tolleranza e della libertà di uomini e donne, questo lungometraggio (97 minuti) girato in gran segreto a Oulata, in Mauritania e vicino alla frontiera col Mali, colpisce per la sua bellezza visiva, al di là della sua valenza politica. Dune color miele, capre e gazzelle che corrono sulla sabbia finissima, tramonti poetici e specchi d'acqua argentati evocano armonia. In forte contrasto con l'orrore dell'Isis, rappresentato da un manipolo di bulli nel deserto, col mitra a tracolla. Gente che vieta ai ragazzini di possedere un pallone per giocare a calcio. E loro, senza pallone, giocano lo stesso, mimando una vera partita «La bellezza salverà il mondo: non a caso cito Dostoevski. La bellezza è la distanza necessaria, quando si evoca la violenza», spiega Sissako da Parigi, dove fa la spola con il suo paese maliano, Nouakchott. Ormai il cineasta più in vista del Continente Nero è diventato regista universale grazie a Timbuktu . Dove gli jihadisti vengono messi in parodia, come idioti che non si capiscono tra di loro e ricorrono all'inglese maccheronico, per comunicare. «Gente che fa cose orrende, ma che, quando ha un ostaggio tra le mani, gli offre il thé, gli dà le medicine prescritte, gli allunga gli occhiali, caduti per terra. E qualche minuto dopo, lo sgozza», dice il regista classe 1961, da poco diventato padre. Del resto, la scena iniziale di Timbuktu mostra proprio un ostaggio occidentale, nel deserto, messo a suo agio dai combattenti dell'Isis, che si preoccupano delle sue ricette mediche. «Quelli che hanno sgozzato le tante vittime occidentali, non è che tagliano la gola per la prima volta. L'hanno fatto prima che la cosa diventasse pubblica. Filmando l'ostaggio in quel modo, ho voluto far capire che questi è mio fratello e che la sua sofferenza non va taciuta. Io ho girato in Mauritania, col sostegno dello Stato, con i soldi della Repubblica Islamica mauritana. E mentre giravo, l'esercito proteggeva me e la mia troupe», s'infervora Sissako.
Sarà difficile che il largo pubblico si appassioni a un film così essenziale, quasi «sovietico», per lentezza e schematismo estetico - d'altronde, in Mauritania Sissako ha frequentato il Centro Culturale sovietico, finendo i suoi studi di cinematografia alla VGIK di Mosca,dove ha studiato anche Tarkovskij - ma la sua storia è esemplare. E narra di Kidane, mandriano che vive in pace sotto una tenda, non lontano da Timbuctu, insieme a moglie e figlia. Ma l'arrivo dei fondamentalisti religiosi, che scorrazzano nel deserto in jeep e in moto scalcinate, gridando assurdi diktat, stravolgerà quella quiete. Tutto precipita quando Kidane spara, per errore, al pastore che aveva ucciso un bue della sua mandria, chiamato GPS. La sharia lo condanna a morte e anche sua moglie deve morire. «Nel mio islam, la donna è uguale all'uomo. Rifiuto l'oscurantismo salafita, estraneo al DNA della mia cultura. Quando i francesi hanno liberato Timbuctu dall'occupazione jihadista, ci sono andato per parlare con una pescivendola della quale avevo sentito dire. Aveva osato sfidare gli jihadisti. Ho raccolto la sua testimonianza e l'ho messa nel film».
In Timbuktu Sissako mostra un rapper francese, che, comicamente, cerca di registrare un video intimidatorio, ma non è convinto. «Tengo molto a questo personaggio, un giovane cui hanno fatto il lavaggio del cervello. E che pensa che, quando faceva musica, era nel peccato.
Poi abbiamo saputo che l'uomo che ha sgozzato l'ostaggio americano James Foley era un rapper londinese», racconta il regista, amante dei western con Terence Hill e Bud Spencer, visti da ragazzino al Soudan Ciné di Bamako. «A Bamako c'è un ristorante gestito da un maliano e da un cinese: si chiama La collina profumata. Sarà il titolo del mio prossimo film». Un'altra storia che parte dall'Africa e diventa universale.
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