Pontoppidan e l'ingegnere che fa crollare la propria vita

I sogni di gloria e gli amari risvegli di un uomo in bilico fra modernità e natura nella Danimarca di fine Ottocento

Pontoppidan e l'ingegnere che fa crollare la propria vita

Il premio Nobel per la Letteratura ha una cosa in comune con il Festival di Sanremo: ogni tanto lo vincono gli equivalenti di una Gilda, di un Mino Vergnaghi, o dei Jalisse. Accadde nel 1917, oltretutto con un ex aequo, e per giunta di due autori della stessa nazionalità, i danesi Karl Adolph Gjellerup ed Henrik Pontoppidan. Ma il premio Nobel per la Letteratura ha soprattutto una cosa ben più importante, in comune con tutte le competizioni figlie del gusto dei giudici e non di risultati oggettivi: è sempre opinabile (come dimostrano in negativo le assenza di Tolstoj e di Proust dal palmares della gara che si svolge in quel di Stoccolma).

Il fatto che Pontoppidan (su Gjellerup confessiamo totale ignoranza) sia ancor oggi, dopo un secolo abbondante da quella medaglia al valor letterario, pressoché sconosciuto ai lettori italiani, non stupisce: è un esempio di immeritato oblio, molti altri se ne contano e molti altri se ne conteranno. Di Pontoppidan il Sistema Bibliotecario Nazionale riporta soltanto due titoli. E se il primo, uscito in sei edizioni fra il '65 e l'80, è l'antologia a due piazze divisa proprio con Gjellerup e curata da Carlo Picchio, il secondo, delibato dopo il precedente, in questa estate arida anche in tema di proposte editoriali, è il modo migliore per scoprire lo scrittore nato a Fredericia il 24 luglio 1957 e morto a Ordrup il 21 agosto 1943. Lo scrittore e l'uomo, peraltro, visti i numerosi punti di contatto autobiografici che costellano il poderoso romanzo Pietro il fortunato edito ora da Fazi (pagg. 796, euro 22, traduzione di Alessandro Storti).

Come Peter Andreas Sidenius, ovvero Pietro, o meglio Per (così preferisce farsi chiamare il protagonista di questa versione scandinava dell'Educazione sentimentale flaubertiana), anche Henrik era figlio di un pastore luterano tradizionalista ostile a qualsiasi ingerenza della modernità nella vita della sua numerosa famiglia. Come Per, anche Henrik si liberò del giogo paterno lasciando la provincia per cercare fortuna a Copenaghen; voleva diventare ingegnere; studiò al Politecnico di Copenaghen; si guadagnò inizialmente da vivere, dietro raccomandazione di un fratello, come insegnante privato; al netto di alcune storie passeggere ebbe due donne molto diverse fra loro, una ricca borghese e una contadinotta; viaggiò molto fra Germania, Svizzera e Italia; conobbe Georg Brandes (nel romanzo, il critico letterario e filosofo punto di riferimento per l'intellettualità illuminata danese è chiamato semplicemente Nathan). E soprattutto - poiché questo è il motore che aziona le vicende, nel vasto affresco uscito inizialmente in ben otto parti fra il 1898 e il 1904 e poi ridotto a tre volumi nel 1905 - come Per, Henrik aveva progettato un'opera colossale che avrebbe potuto, secondo i suoi piani, far assurgere la piccola e appartata Danimarca, appena uscita dalle due guerre dello Schleswig contro la Prussia, a nuova potenza economica d'Europa: un sistema di sfruttamento del moto ondoso e del vento in grado di produrre energia in quantità per l'intero Paese.

A mitigare parzialmente la distrazione degli editori (italiani e non solo) nei confronti di Pontoppidan, ha provveduto nel 2019 un film del regista danese Bille August targato Netflix e omonimo del romanzo. Ma per dimenticarla del tutto consigliamo al lettore di oggi di applicare un semplice trucchetto: leggere per primo l'ultimo capitolo di questa tormentata vita. Ciò di certo non gli rovinerà il piacere di seguire la parabola del Nostro, poiché è chiaro come il sole che quell'aggettivo, «fortunato», affibbiatogli da un amico, è del tutto fuori luogo, anzi suona quasi come una presa in giro, se messo in relazione all'altissima considerazione di sé del giovane Per, partito lancia in resta per conquistare la gloria. Il capitolo 28, infatti, più che un epilogo è un testamento spirituale e filosofico che almeno in parte rimanda a Nietzsche, conosciuto personalmente dall'autore e filtrato dalla lunga frequentazione con Brandes. In un appunto di Per leggiamo ad esempio: «Secondo un aforisma attribuito a Voltaire, se Dio non esistesse bisognerebbe inventarlo. Io vi vedrei più verità invertendo la frase: se davvero esiste Dio, dobbiamo fare in modo di dimenticarlo, non tanto per timore delle nostre cattive azioni e del castigo che esse comportano, quanto per allevare persone disposte a fare il bene per il bene stesso». È la natura «ricca, saggia e misericordiosa» l'unica divinità certificata dal questa sorta di neo-paganesimo cui approda, proveniente da tutt'altri lidi, la navigazione dell'ormai ex-aspirante ingegnere disilluso.

Del resto, ne ha ben donde, visto - e lo vedremo presto, riprendendo la lettura dal primo capitolo - come è stato trattato il suo progetto a favore dell'intera comunità e basato su quanto di più naturale esista: la forza del mare e del vento. Ma intendiamoci, Per non è un martire, semmai un convertito, visto come la pensava all'inizio: «Era giunto a nutrire un vero disprezzo per gli artisti, i cocchi di Mamma Danimarca, dediti a un'isterica idolatria della natura del tutto analoga a quella dell'aldilà praticata dai preti, e pertanto trattati alla stregua di esseri favoriti dalla Grazia, ambasciatori del Cielo in terra, messaggeri di un non meglio specificato Spirito». E anche quanto ai rapporti interpersonali e alle faccende di cuore, non è certo il massimo dell'affidabilità, come sperimenteranno prima Jakobe Salomon, la ricca ebrea, e poi Inger Blomberg, la proletaria figlia di un reverendo. Tuttavia la sua smania di successo non è orientata a banali fini di lucro, ma alimentata dal desiderio di un'impresa da vichingo. Un vichingo che poi guardandosi allo specchio si vedrà come una creatura delle foreste, brutto, sporco e cattivo, con quel cognome «dal sapore latino (come Pontoppidan, ndr) e diaconale, che come una coda di troll tradiva le sue origini ovunque andasse».

E ingenuamente anticipano lo slancio futurista di Filippo Tommaso Marinetti queste sue parole, tratte da una lettera a Jakobe: «Per me, lo spettacolo di uno scalo ferroviario con illuminazione elettrica è più entusiasmante di tutte le Madonne di Raffaello messe insieme».

Sì, in conclusione Per Sidenius è un fallito, ma sono proprio i falliti come lui a conquistare la scena della Letteratura. Anche quando chi ve li ha portati resta per un secolo nel dimenticatoio.

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