Quel potere che ci toglie il dono della parola

Il romanzo del neurolinguista Andrea Moro è un messaggio all'umanità. In forma di thriller

Quel potere che ci toglie il dono della parola

Ho incontrato Andrea Moro per la prima volta, anni fa, alla libreria Cortina di Largo Richini, a Milano. Uno dei libri esposti in vetrina aveva per titolo Breve storia del verbo essere, ed essendo io scrittore ma laureato in filosofia (primo amore mai dimenticato), corsi ad acquistarlo. Non sapevo chi fosse questo Andrea Moro, credevo un filosofo. Invece quel libro mi fece entrare in un territorio per me nuovissimo: quello delle neuroscienze, e precisamente della neurolinguistica. La lettura fu faticosissima, ma quel libro divenne uno dei più importanti della mia vita.

Poi diventammo amici sul serio, Andrea e io, tanto che un giorno mi telefonò e mi disse: «Non ci crederai ma ho scritto un romanzo. Potresti dargli un'occhiata?». Non so se la nostra amicizia abbia avuto o meno una parte nella gestazione di questo spettacolare romanzo-thriller, opera di uno scienziato di fama mondiale. Credo di no: ma de Il segreto di Pietramala (La Nave di Teseo, pagg. 384, euro 18) sono stato tra i primi lettori, e ne sono fiero.

Un giovane ricercatore di linguistica ebreo francese, Elia Rameau, si trova in Corsica per studiare i dialetti e le inflessioni di una certa area del nord-ovest dell'isola, quando si imbatte in una piccola città abbandonata: Pietramala. I luoghi abbandonati al mondo sono tanti, ma nessuno ha i caratteri di questo. Si direbbe che Pietramala sia stata evacuata pochi decenni dopo la sua costruzione. Nessun segno di distruzione. Nel cimitero non ci sono tombe di bambini, segno che non ci furono epidemie o altro. Ma la cosa più sorprendente è che a Pietramala non esistono documenti scritti di nessun genere: non ci sono librerie, non ci sono iscrizioni, perfino l'archivio parrocchiale è vuoto. Giunto da Parigi fino in Corsica per studiare la lingua, Elia scopre l'unico luogo al mondo dal quale la lingua è fuggita via, o dove si è dissolta. Possibile? Nessun posto al mondo è così, perché «lingua» e «posto», «lingua» e «uomo» sono, possiamo dirlo, la stessa cosa.

Ma questa è soltanto la prima di una serie di scoperte sconcertanti che Elia Rameau farà. Scoprirà che a Pietramala, secoli fa, fu sperimentata una lingua artificiale, che avrebbe dovuto progressivamente sostituire quelle naturali. E scoprirà che c'è chi, oggi - in Europa, a New York, a Boston, dovunque - vuole ripetere, su basi scientifiche, lo stesso esperimento. Che non è un esperimento, ma il tentativo di realizzare il desiderio proibito di ogni Potere: quello di rubare la lingua agli uomini per sostituirla con un'altra, totalmente controllabile. Parlare a loro nome, muoversi, volere, pensare, decidere al loro posto.

Un'ipotesi fantascientifica? Esistono diverse ragioni per rispondere di no. La prima è che l'esperimento di Pietramala ha un fondamento storico nel sogno - lo troviamo per esempio in Leibniz (1646-1716) - di un'estensione del metodo matematico a tutto il sapere umano (mathesis universalis), così da dissolvere ogni disputa, ogni discordia, ogni diversità di pareri in un semplice calcolo. La seconda ragione è che il nuovo esperimento è già in corso. Basta aprire un qualunque sito di vendita online, basta chiedersi cosa ha prodotto le nostre quotidiane dipendenze (per esempio quella da smartphone), basta pensare che sono allo studio non solo automobili, ma anche biciclette che si guidano da sé - permettendoci di non pensare alla guida per immergerci meglio nei nostri piccoli mondi «formato cranio» (David Foster Wallace) e al tempo stesso delegando il piacere della guida della bici a una macchina. Suppongo che sia allo studio anche il robot che ascolta Brahms al mio posto, saprà definire con esattezza la qualità della direzione d'orchestra, misurerà gli skills del primo violino, si esibirà in analisi musicologiche raffinatissime, e io finirò per delegare a lui l'ascolto, riservando a me stesso il resoconto finale dalla sua voce, non necessariamente metallica. Insomma, è allo studio l'eliminazione di ogni imprevisto, di ogni piacere inaspettato, di ogni scoperta personale, di ogni conquista (con annessa fatica). Saremo liberati da tutto questo e così saremo liberi. Ed è forse proprio questo il patto che il diavolo propone ai Faust, di ieri e di oggi.

Nel romanzo di Moro, uomini molto potenti si stanno dedicando a questa virtuosa ricerca: e un solo piccolo individuo, Elia Rameau, squattrinato sognatore innamorato di Shakespeare e amico di due attori sgangherati e poveri quanto lui, che si fanno chiamare Ariele e Calibano, ossia due dèi prigionieri, si trova come un sassolino dentro questo ingranaggio. In una delle pagine più folli e memorabili del romanzo, Elia percorre a piedi Manhattan in una sera gelida, s'imbarca per Staten Island sperando che la notte lo inghiotta per sempre, e noi ci stringiamo a lui, i suoi pensieri tragici sono i nostri: Dio sta per essere eliminato, il nulla diventa un'esperienza fisica (come in certe scene di David Lynch) e con Dio anche noi siamo sull'orlo di un buco nero.

Ma la notte è lunga, e alla lunga notte segue un'alba altrettanto gelida, dove però lo spazio si popola di un brusio semplice, amabile: quello della vita, della povera vita che ricomincia. Con i suoi dolori, le sue noie, e con il suo amore, un amore che parla, che non si può criptare, e che forse - forse - il potere non riuscirà a sconfiggere.

Questo romanzo non è solo l'opera di un uomo di genio, ma anche di un uomo che ama il suo prossimo al punto da inventare una storia avvincente per ricordare a tutti (e anche a se stesso) il pericolo che ci minaccia ogniqualvolta ci accontentiamo di vivere dentro questo scenario senza più desiderare di andare a vedere quello che c'è di là, oltre il fondale.

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