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Preciso, sperimentatore, folle Ecco perché Miró piace a tutti

Il catalano sembra un artista facile, in realtà dietro le sue opere «infantili» e stravaganti c'è il metodo di un «contadino», la resistenza di un boxeur e lo sguardo di un genio

Preciso, sperimentatore, folle Ecco perché Miró piace a tutti

Ci sono artisti che paiono brand perfetti a tutte le latitudini. Joan Miró (1893-1983), ad esempio. Solo nell'ultimo biennio, gli si sono dedicate mostre ovunque, da San Paolo del Brasile a Taiwan. Attualmente al Caixa Forum di Madrid è in corso la mostra Mirò e l'oggetto e in Italia il Museo delle Culture di Milano punta proprio sull'artista catalano per il titolo di punta della stagione: Joan Miró. La forza della materia (fino all'11 settembre) ha aperto da tre giorni e ha già registrato cinquantamila prenotazioni. Mirò mette d'accordo tutti: piace ai bambini, lui che dalle pitture infantili si lasciava spesso ispirare, piace a chi ama il gioco surrealista dei suoi quadri-poesia, piace a chi ama il colore, con quei suoi guizzi netti sulla tela, piace a chi apprezza la scultura, per le sue composizioni stravaganti.Artista facile? Solo in apparenza. Era un metodico Joan Mirò, non improvvisava mai. Fin da ragazzino già paurosamente consapevole del valore della sua arte - conservava tutti i suoi disegni: ne ha lasciati diecimila in eredità alla Fundació di Barcellona che porta il suo nome. Prendeva molto sul serio il suo lavoro, Joan Miró: ogni giorno, fino a 90 anni, passava in atelier tutta la mattinata a lavorare. E poi si allenava. Dalle nove alle dieci della sera, finché il fisico glielo ha permesso, si esercitava come boxeur, perché diceva che l'arte ha bisogno soprattutto di forza fisica. Era anche un timido, Joan Miró. Quel farfallone di Picasso gli rimproverava di presentarsi in studio sempre con la stessa donna la moglie Pilar, compagna di una vita e solo uno spirito goliardico come André Masson convinse il pittore catalano a entrare nel vivace circolo dei poeti surrealisti, negli anni del soggiorno parigino. «Il dandy di Mont Roig» lo chiamavano gli amici, per quel suo incedere elegante e per ricordare le sue origini campagnole. «Contadino» si è sempre considerato («lavoro come un giardiniere», diceva), e dal mondo contadino ha amato trarre ispirazione per i materiali usati: corde, legno, tessuti.Non inganni il fatto che le sue opere hanno titoli in francese: Miró «pensa» in catalano, che è un modo per dire che mentre tutti gli artisti degli anni Trenta compiono i loro bei tour nei musei etnografici inseguendo un primitivismo che odora sempre di posticcio, lui torna alla tenuta paterna, ne osserva il paesaggio e lo trasforma in poesia. Su tela, in scultura, su tappeti. Tanto metodico nella vita è stato Mirò, quanto nell'arte fu sperimentatore folle. Pronto a mettersi in discussione di continuo («la pittura da cavalletto va assassinata» è una sua celebre esternazione): quando a Parigi nel '74 vogliono organizzare una grande retrospettiva sulla sua opera, Mirò brucia la maggior parte dei suoi lavori, e ricomincia tutto da capo. Il mondo gli chiedeva a gran voce opere surrealiste, delicate e poetiche? Lui, a 80 anni suonati, nel suo atelier di Palma di Maiorca (ancora perfettamente conservato: vale da solo la visita alla «Fundaciò Pilar i Joan Miró» dell'isola) cambia le carte in tavola. E crea arazzi, pitture materiche, incisioni. Opere di una violenza furente. «Mio nonno odiava essere etichettato, era un anticonformista. Un Duchamp campesino. Di lui mi ha sempre stupito l'energia, anche negli ultimi anni della sua vita ci racconta Joan Punyet, nipote dell'artista . Era un lottatore. A 85 anni faceva una pittura che avrebbe potuto fare un ragazzino, la sua è un'arte gestuale, fisica, quasi rabbiosa. Mi diceva che si sentiva sempre come un vulcano in eruzione». Il Miró meno noto è dunque l'artista della materia, influenzato da un primitivismo diverso: quello del Cantico di San Francesco, che tanto amava, e di artisti come Giotto e il Ghirlandaio, che aveva scoperto nelle sue visite al Louvre.

È questo «Miró artigiano» quello che vediamo al Mudec-Museo delle Culture di Milano, per una mostra ideata da 24 Ore Cultura con Rosa Maria Malet, direttrice della Fundació Miró di Barcellona: un centinaio di opere realizzate tra il 1931 e il 1981 provenienti dal museo catalano e dalla collezione della famiglia, un viaggio che comincia con quel vocabolario in pittura (le donne, gli uccelli, le costellazioni) che è la cifra stilistica di Mirò e che procede con sculture che paiono ready-made, costruzioni in bronzo in cui Mirò recupera oggetti quotidiani, dai giocattoli ai mattoni al porta-carta igienica. Se è innegabile che Mirò sia un artsy-brand perfetto per mostre di successo, la sua arte resta nel campo dell'ineffabile: poetica e sanguigna insieme.

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