Nell'edizione del Giulio Cesare, curata da Daniele Salvo, la Roma immaginata da Shakespeare appare come una nebulosa inghiottita dal cielo di mezzanotte. Solo la luce intermittente dei bracieri e qualche obliquo raggio radente solcano, nella bella versione di Masolino D'Amico, la notte eterna dei congiurati. Che non sono più le figure scolpite da Plutarco e poi calate nell'universo del poeta di Stratford ma lemuri più candidi dei lenzuoli che indossano. Sotto ceree maschere che ne alterano in modo prospettico i volti come negli horror movies degli anni trenta.
In questa tregenda, Giorgio Albertazzi nei panni dell'autore del De bello gallico appare l'unico essere vivente, staccato com'è per forza interpretativa e rigore d'impostazione registica, dal coro che ne decreta la fine. Mentre accanto a lui che, post mortem, dà vita al fantasma della propria vita, Melania Giglio conferma l'alta tragicità della sua vocazione incarnando in perfetto straniamento il Destino dopo aver dato voce al lamento di Porzia.
E che dire degli artefici del fatto di sangue? Rinunciando alla velleità di uno spiegamento atletico fine a se stesso, i sicari appaiono mossi da una forza malefica che li trascende, come il magnifico Bruto di Gianluigi Fogacci, e al contempo li annulla spiegandogli di fronte l'abisso come accade all'impetuoso Giacinto Palmarini. Mentre il Casca torbido e malinconico di Virgilio Zernitz conduce il gioco spaiato degli eventi con la facondia di un mago rinascimentale. Quasi assumendosi il compito di evocare da questa notte tremenda l'ispirata allocuzione tragica del Marcantonio di Graziano Piazza.
GIULIO CESARE
di Enrico Groppali
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