Cultura e Spettacoli

Un principe e un assassino in marcia per salvare il tesoro di San Gennaro

Francesco Pinto racconta un'avventura (reale) nell'Italia disastrata del '45

Non sono nati per viaggiare insieme, eppure se ne vanno in giro su una Lancia nera lungo strade che sembrano cicatrici, come due clandestini, in un'Italia con ancora addosso l'odore e le maledizioni della guerra, la seconda, in cerca di un segno, di una speranza. A vederli non hanno davvero nulla da spartirsi. Al volante c'è un tipo tozzo che puzza di brillantina e per mestiere non si fida di nessuno, soprattutto dei parenti. Si fa chiamare il re, ma all'anagrafe è battezzato come Giuseppe Navarra. Il suo regno sa di contrabbando. Al suo fianco c'è un uomo che assomiglia a un salice che ha smesso di contare i giorni che lo avvicinano alla fine. È lui la scorta di Navarra e per brevità tutti lo conoscono come il principe Stefano Colonna di Paliano. L'uno e l'altro sono in missione per conto di san Gennaro. Devono riportare a casa il tesoro del santo.

Francesco Pinto è un cacciatore di storie perdute. Lo ha fatto con La strada dritta e con Il lancio perfetto, le avventure visionarie dell'autostrada del sole e del primo satellite italiano, con il sogno delle olimpiadi romane in I giorni dell'oro e con le imprese di Rodolfo Siviero narrate in L'uomo che salvò la bellezza. Questa volta ti trascina nell'anima testarda e scanzonata di Napoli, e ti prende all'improvviso, all'antrasatta, con l'allegria di chi sorride di nascosto, come accade ai vecchi quando per un attimo si riscoprono bambini. Ci manda san Gennaro (HarperCollins, pagg. 250, euro 18) è un romanzo picaresco, con il passo di Lazarillo de Tormes e i personaggi del cinema neo realista, perché quando vedi, immagini, il principe e il malandrino non puoi che farlo con il volto e la voce di Vittorio De Sica e Nino Manfredi. È che le avventure passano proprio da quelle terre, da Roma fino a Montecassino e poi il rocambolesco ritorno a Napoli. La storia che Pinto racconta è successa davvero. È storia sacra e sciamannata. È la guerra che arriva nella città di Pulcinella e la prima preoccupazione di chi ha a cuore le sorti della città è nascondere l'oro di San Gennaro. Non un tesoro qualsiasi, ma le donazioni dei nobili e dei pezzenti, di chi aveva magari troppo e di chi si toglieva tutto, di sante e puttane, di re di sopra e di re di sotto. È l'oro del santo e l'oro di Napoli. «Il pezzo più importante sono due perle molto piccole. Le ha regalate una popolana scampata dalla peste. Era l'unica cosa preziosa che avessero in famiglia». E dove lo porti questo tempio della napoletanità? Dove la guerra non può arrivare. Non dovrebbe arrivare. Lassù, dove l'Occidente ha posto la prima pietra, dentro l'abbazia che nessuno può pensare di bombardare: Montecassino. E invece la guerra è arrivata proprio lì e ci è rimasta a lungo e i liberatori si sono convinti che l'unico modo per andare avanti fosse buttare le bombe sui benedettini. Il tesoro però non c'era già più. Il padre abate di Montecassino, Gregorio Diamare, aveva convinto i tedeschi a portare ogni ben di Dio a Roma. Casse e casse, senza però rivelare che tra pergamene e quadri ci fosse pure l'oro del santo. Eccola allora l'impresa dei picari. A guerra finita San Gennaro deve riavere la roba, ma senza dare troppo nell'occhio. I due vanno e si fingono quello che non sono e si perdono, si inceppano, si conoscono e si rassomigliano. È un viaggio nell'Italia che cerca di rimettersi in piedi, dove sacro e profano si arrangiano allo stesso modo, con le Turmac sempre in bocca e frati in cerca di una nuova vocazione, con gli ultimi figli dei briganti ancora sulle montagne e meccanici che hanno appena cominciato a capire come funziona il mestiere. Tutto questo visto con gli occhi di quei due, Colonna e Navarra, il principe e l'assassino. Ed è una meraviglia di dialoghi, di rivelazioni, di racconti, di sguardi e filosofie.

È l'arte di improvvisare, di credere e di crederci e di rimettersi in piedi. Ce la faremo a tornare a casa?

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