C'è una frase del Talmud che viene citata spesso: «Chi salva una vita salva il mondo intero». Ma c'è anche un'altra frase del Talmud che viene citata molto meno spesso: «Se qualcuno viene per ucciderti, alzati e uccidilo per primo». Può sembrare duro da accettare ma le due frasi non sono per forza antitetiche. A volte per salvare molte vite si può essere costretti a spegnerne una. Solo che decidere e mettere in atto questa politica richiede di fare ragionamenti terribili, di mettere in gioco la propria coscienza e di sporcarsi le mani.
Per rendersene conto niente di meglio che leggere Uccidi per primo. La storia segreta degli omicidi mirati di Israele (Mondadori, pagg. 754, euro 36). Scritto dal famoso giornalista israeliano Ronen Bergman, il saggio racconta nel dettaglio come sin dalla sua origine lo Stato ebraico abbia dovuto prendere in considerazione la pratica degli omicidi mirati per difendersi dalla minaccia dei Paesi arabi.
Anzi la prassi, per certi versi, era addirittura precedente alla nascita di un vero e proprio Stato. Nella guerra civile che insanguinava la Palestina sotto mandato britannico i coloni ebraici dovettero organizzarsi sin da subito per colpire i vertici delle formazioni paramilitari arabe. E anche tra i membri della brigata ebraica che combatteva con gli alleati in Europa si organizzò una unità clandestina (nota come Gmul) per colpire i nazisti che avevano compiuto efferati massacri durante la Shoah e che, a conflitto finito, si stavano dando alla macchia. La Gmul riuscì a colpirne più di cento.
Ma ab origine si evidenziò il problema inevitabile di operazioni di questo tipo. Condotte per forza in maniera informale, e passando attraverso informatori, non erano esenti da rischi e da errori. Nella caccia al nazista più di una volta gli uomini della Gmul finirono per essere, inconsciamente, utilizzati per vendette personali dai loro delatori e indirizzati su persone ben diverse dai loro originali bersagli.
La questione divenne ancora più pressante e delicata dopo la fondazione dello Stato di Israele. Sul piano pratico di scelte ce ne erano poche. Come disse Moshe Dayan, nel 1956, dopo che un commando palestinese aveva attaccato un kibbutz uccidendone uno dei coloni e poi deturpandone orrendamente il cadavere: «Oggi non vogliamo gettare la colpa sugli assassini... Noi siamo la generazione degli insediamenti, e senza gli elmetti di acciaio e le bocche dei cannoni non riusciremmo a piantare un albero o a costruire una casa». Ma spesso più che un cannone risultava utile una pistola o un pacco bomba. Era già in corso quella che Bergman chiama «una guerra segreta» e che continuò ad infuriare anche nei periodi in cui formalmente Israele era in pace con i suoi bellicosi vicini. Vennero presto organizzate unità speciali per l'intelligence o squadre d'assalto come la Mifratz del Mossad. Vennero reclutati esperti come Nathan Rotberg per compiti non simpatici: univa in una grande vasca tnt, tetranitrato di pentaeritrite e altri prodotti chimici in miscele mortali. Rotberg, un pacioso colono di kibbutz, lo raccontava così: «Bisogna sapere come perdonare il nemico. Anche se non abbiamo alcuna autorità per perdonare persone come Bin Laden: quello può farlo solo Dio. Il nostro compito è organizzare un incontro tra loro. Nel mio laboratorio avevo aperto un'agenzia di incontri... Ne ho organizzati più di 30».
Il problema era semmai politico e morale. Come poteva uno Stato democratico agire per via clandestina? E come si poteva cercare di dare a queste procedure un contesto di accettabilità e controllo? Il problema angustiava Ben Gurion e anche Golda Meir... Vennero approvati appositi comitati per decidere quali operazioni approvare.
Si trattava sempre e comunque di fare patti col diavolo. Uno degli esempi più eclatanti fu il caso degli scienziati tedeschi che iniziarono a sviluppare la tecnologia missilistica egiziana nel 1962. Israele di colpo si ritrovò vulnerabile. Una pioggia di testate chimiche avrebbe potuto in brevissimo tempo annientare il Paese. Ne nacque una vera e propria psicosi e una disperata corsa contro il tempo. Gli operativi di Tel Aviv dovevano, a tutti i costi, riuscire a mettere le mani su Eugen Sänger e Wolfgang Pilz (due degli scienziati che avevano lavorato con Von Braun). Il Mossad arrivò anche a contattare e ad utilizzare Otto Skorzeny (sì, proprio quello che liberò Mussolini sul Gran Sasso) per riuscire ad avvicinarsi ai tecnici tedeschi. A molti si gelò il sangue nelle vene all'idea di quella collaborazione. Ma non vi era altra via.
E il saggio poi racconta moltissimi altri episodi al cardiopalma, come la caccia ai militanti dell'Olp che avevano favorito e appoggiato la strage degli atleti ebraici alle olimpiadi di Monaco, o la pianificazione dell'eliminazione del leader di Hamas Ahmed Yassin nel 2004, o la caccia agli scienziati nucleari iraniani.
In ogni caso Bergman è molto onesto nel bilanciare la narrazione che non è mai a scarico di responsabilità di Israele ma nemmeno sottovaluta l'enorme minaccia a cui il Paese è da sempre sottoposto. Un libro da leggere, con l'avvertenza che ovviamente molti degli argomenti sono stati secretati e che quindi Bergman ha delle sue fonti. Ma in questo settore niente è mai oro colato.
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