Quanta destra e Tradizione in un catalogo illuminato

Schmitt, Jünger, Guénon, Gurdjeff: un grande editore capace di rendere qualsiasi autore "Adelphi" e basta

Quanta destra e Tradizione in un catalogo illuminato

Nel suo ultimo libro dedicato all'amico, maestro e sciamano Bobi Bazlen, e per una volta «ultimo» non significa «nuovo», ma davvero «ultimo», Roberto Calasso a un certo punto ci lascia in eredità una frase impietosa: «Una casa editrice è fatta di sì, ma ancor più di no». E in quel «no» c'è tutto il mito Adelphi.

Prima di tutto Roberto Calasso, che del Novecento italiano non è stato l'editore più popolare (per quello c'è la Mondadori) né più influente (a quello pensò Giulio Einaudi con il suo gruppo di intellettuali), ma il più ammaliante e enigmatico, disse no al premio Strega. Incredibile, ma Adelphi non ha mai vinto al Ninfeo. Roberto Calasso arrivò nella cinquina nel 1989 con Le nozze di Cadmo e Armonia, ma perse contro La grande sera di Giuseppe Pontiggia (un suo consulente...), dopodiché il marchio Adelphi non concorse più al premio. A volte basta un «no» per fare la storia. Come quando disse un no impietoso e ripetuto a Eugenio Scalfari, il quale sognava il logo con il pittogramma cinese «della luna nuova» per il suo La ruga sulla fronte.

Uomo di pochissime parole (si contano meno interviste e apparizioni in pubblico dell'Editore che refusi nei libri Adelphi), Roberto Calasso fece sempre parlare i titoli che sapeva scegliere, e soprattutto il catalogo che quei titoli costruivano, dorso accanto a dorso, autore dopo autore, con un senso, un ritmo, un percorso invisibile ma reale. Un catalogo illuminato e illuminante più che illuminista. Non si riesce mai a capire esattamente il perché a volte lo si può giusto intuire ma per qualsiasi lettore è naturale che la stessa collana ospiti la biografia di uno stregone dei Sioux e La nube purpurea di Matthew P. Shiel, Klossowski e il carteggio Cioran-Eliade, le opere di Roberto Bolaño e quella di Irène Némirovsky...

Del resto il mito Adelphi passa anche da quegli scaffali con tutte le copertine allineate color pastello in tinta unica, di cartoncino ruvido, tutti imperdibili, perché uno attira l'altro, che si vendono nei film dell'Archibugi, o con Sergio Castellitto e Margherita Buy... La cultura è egemonia, è moda e anche brand.

È vero. Calasso, intellettuale di primissimo piano, editore-lettore-scrittore e anche imprenditore (con lui la casa editrice divenne un vero affare) aveva orrore delle categorie politiche, ormai putrefatte, di destra e sinistra. «Come si inquadrava Adelphi politicamente? Non si inquadrava, semplicemente - confessò nel saggio L'impronta dell'editore, 2013 - Nulla di più tedioso e sfibrante delle dispute sull'egemonia culturale della Sinistra negli anni '50 in Italia...». Ma è altrettanto vero che nel corso della sua lunga stagione dentro l'Adelphi se Bazlen fu l'ideatore, lui fu tra i fondatori, con Luciano Foà, nel 1962: nel '71 divenne direttore editoriale e dal '99 presidente ha compiuto una straordinaria operazione culturale che è anche politica.

Solo una Sinistra come la sua, a-ideologica ed élitaria, poteva costruire un catalogo così di Destra una Destra non ideologica, ma spirituale, sapienziale, Tradizionale, persino iniziatica per farlo entrare, con nonchalance, dentro i più bei salotti della Sinistra. Bisogna essere Calasso, e sapere che la vera comunicazione non passa attraverso il marketing, per non fare sentire in colpa le professoresse democratiche col cerchietto quando si avventurano in accidentate passeggiate intellettuali accompagnate da Carl Schmitt, o Ernst Jünger, o Léon Bloy: che scandalo quando Calasso decise di pubblicare un cattolico tradizionalista in odore di antisemitismo, tanto da provocare nobili fuoriuscite dalla casa editrice. Senza citare Heidegger. O Nietzsche. Il caso è noto. È proprio la pubblicazione integrale della sua opera, che dentro Einaudi era considerato un progetto pericoloso, a segnare la nascita dell'Adelphi, con l'edizione critica del filosofo tedesco a cura di Giorgio Colli e Mazzino Montinari. Poi arriveranno tutti gli altri autori culto (di certa Destra) riscoperti da Adelphi: René Guénon, Ananda Coomaraswamy, Mircea Eliade, Céline, Konrad Lorenz, Gurdjieff, René Daumal, Cristina Campo, Tolkien, Borges, Bruce Chatwin, persino il filo-hitleriano Knut Hamsun... Tutti nomi posti accanto a Guido Ceronetti, Geminello Alvi, o Massimo Cacciari... Si chiamano eretici, non allineati, area non conformista, cultura «non egemone». Si chiama Adelphi. Adelphi della dissoluzione?

E per il resto, detto che Calasso aveva un'eleganza nello scrivere che si riverberava anche sul suo modo di editare libri, e viceversa, detto che all'Adelphi impose una cura maniacale nel lavoro redazionale, dalle traduzioni ai giri di bozze (cinque!), detto che era un campione delle quarte di copertina (le scriveva tutte lui), detto che la sua Biblioteca Adelphi è il propileo della cultura (anti)moderna, resta solo da segnalare la straordinaria, sfacciata capacità di Calasso e dei suoi collaboratori di indurre anche il lettore più avvertito a credere che la progenitura di qualsiasi libro di successo sia dell'Adelphi. Acquistando l'intero catalogo della Frassinelli anni Sessanta. Ripubblicando Malaparte, orgoglio dl catalogo Vallecchi. O Sciascia, punto di riferimento di Einaudi e Bompiani. Pescando nei cataloghi SugarCo, Longanesi, Garzanti (Gottfried Benn, ad esempio), trasformando romanzi dimenticati in bestseller (Zia Mame), rimarchiando con intelligenza un intero pezzo di Mitteleuropa (da Sándor Márai e Joseph Roth).

Imbattibile nel selezionare, straordinario nel gusto, inimitabile nelle letture, Roberto Calasso è stato l'editore che tutti gli editori

vorrebbero essere. E questo basta. Come ha detto Massimo Cacciari la sua «è una grandissima perdita, temo davvero difficilmente rimediabile, per ciò che avanza della nostra cultura». In tempi di occasioni e dilettantismi vari.

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