Idealisti, ma incoscienti. Che si sia o no appassionati di montagna, così ci sembrano quelli che tentano l'impresa assoluta, la scalata su vie vergini, in condizioni proibitive, così appaiono visti dal basso, mentre vanno a cercare brividi inediti come acrobati su una fune senza rete.
Non basta più, oggi, «fare» la vetta, bisogna arrivarci d'inverno, quando il rischio di non riuscire è di nove su dieci e quando fallire vuol dire spesso non tornare proprio, mai più.
I fianchi degli ottomila sono plaghe di cadaveri ibernati fino alla fine dei tempi.
È una coincidenza, o forse no, che escano nello stesso giorno, oggi, due libri autobiografici di due scalatori italiani molto diversi fra loro, ciascuno dei quali ha compiuto gesta seguite non soltanto da un pubblico di cultori della materia. Uno è morto il 24 febbraio di quest'anno. I resti di Daniele Nardi sono ancora là, a 5.900 metri sullo sperone Mummery del Nanga Parbat, in Pakistan, su una delle vie più pericolose di una tra le montagne più micidiali del pianeta. A pochi passi ci sono anche quelli del suo compagno di cordata, il britannico Tom Ballard.
L'altro è Simone Moro, bergamasco, che sulla stessa montagna è arrivato il 26 febbraio 2016, ed è per sua fortuna ritornato mentre, fra chi arrampicava con lui, la scalatrice Tamara Lunger ha mollato a 70 metri dalla vetta, quando ha capito che l'alternativa era una sola: lasciarci la pelle. È scesa, è caduta per duecento metri, è sopravvissuta ed è stata di fondamentale aiuto anche per gli altri che, rientrando al buio, hanno seguito la sua luce che li guidava verso il campo.
Quell'inverno e quella montagna hanno segnato episodi che resteranno nelle cronache se non nella storia dell'alpinismo. Si accecò la fiducia fra una mezza dozzina di protagonisti, si spaccò un gruppo che avrebbe potuto lavorare compatto, saltarono i nervi, volarono gli stracci. Nardi rimase indietro. Era uno scalatore sui generis, anche per la provenienza geografica: Sezze, vicino a Latina. Non uno del Nord, quindi, non uno nato all'ombra delle vette alpine o dolomitiche. Uno degli Appennini, dei Monti Lepini. Uno fuori del giro.
Quell'anno impacchettò le sue cose e scese a valle. Ma la ferita gli bruciò a lungo. Per sanarla, decise di ritentare l'impresa nel fatale inverno 18-19, lungo lo Sperone Mummery, percorso da cui mai nessuno è uscito vivo.
Come si evince anche dai brani che riportiamo qui a fianco, tratti da La via perfetta (Einaudi Stile Libero, pagg. 272, euro 17,50), libro raccolto sul campo e portato a termine da Alessandra Carati, non è necessario capirne troppo di corrugamenti della crosta terrestre, né di esercizio più o meno consapevole della hubris, per farsi un'idea di quello che passa per la mente di un uomo quando si vuole misurare con una natura forse né maligna né matrigna, ma certo poco benevola.
Dal canto suo, nel lungo memoriale riassuntivo di oltre mezzo secolo di vita, I sogni non sono in discesa (Rizzoli, pagg. 448, euro 22), Simone Moro ripercorre una carriera fatta di sessanta spedizioni e otto vette da ottomila metri, quattro delle quali in inverno.
C'è qualcosa in comune fra le pagine dei due ex rivali. Meglio, c'è una domanda che il lettore si porrà in entrambi i casi: perché? Mettete in fila l'elenco della fatica smisurata, del freddo a cinquanta sotto zero, delle frane e delle valanghe, dei tentativi andati a vuoto, delle perdite di vite umane, degli infortuni gravi, dello scarso ritorno economico di queste imprese (la torta degli sponsor è piccola e presa d'assalto da tutti), dell'ambascia in cui rosolano i cari, dei costi, del tempo, dell'interesse relativamente scarso del pubblico (salvo quando scattano le tragedie) e farete davvero fatica a capire.
Non può bastare la bellezza della natura, pur vista da un'angolatura esclusiva, a spiegare il tutto. Sia Moro sia Nardi usano spesso la parola «limite». Moro parla di giocarsi le carte «fino al limite di rischio che reputiamo accettabile». Nardi ricorda di continuo la necessità di andare «oltre il limite».
Quella passione per la montagna e per l'avventura che nasce in entrambi i casi in un contesto famigliare, vacanziero, diventa un'ossessione. Un grande scrittore ed esperto di alpinismo come Dino Buzzati nelle montagne vedeva lo specchio di un mistero esistenziale. Che cosa nascondono, lassù? Quali spiriti le abitano? Se si sostituiscono le crode delle Dolomiti con i seracchi del Nanga, il risultato non cambia. Sono ostacoli a protezione di quel mistero che si cela in vetta, o meglio, nell'anima di chi quella vetta la vuole conquistare e calpestare.
Né in un libro, né nell'altro e neppure in quello scritto da Marco Berti, Tom Ballard, il figlio della montagna (Solferino, pp. 272, euro 18) e uscito un mese fa, si parla di sport, semmai di avventura. L'alpinismo non è uno sport, le condizioni non sono uguali per tutti: la buona e la cattiva sorte la fanno da padrone. L'alto tasso di ambizione, competizione e litigiosità emerge purtroppo ovunque, spesso va a chiazzare e a deturpare il bianco mantello dei valori alti e veri legati all'esercizio dell'alpinismo. L'invadenza delle tecniche di comunicazione non aiuta. Una scalata non è un reality e non dovrebbe diventarlo. E invece chi si racconta non può fare a meno di togliersi chili di sassolini dagli scarponi.
Quanto alla fine di Nardi, Moro continua a sostenere la sua tesi originaria: salire il Nanga per lo Sperone Mummery è un'impresa impossibile, quindi suicida. Ma quante imprese sono considerate tali, salvo smentita dei fatti. L'obiettivo di tutti i cultori del superomismo d'alta quota è oggi la prima invernale del K2, altra vetta himalayana horror. Vedremo se anche questa passerà dal vivamente sconsigliabile al «già fatto».
La discriminante per farcela o no è quasi
sempre l'autocoscienza, là quando si sta passando il punto di non ritorno. C'è sempre un momento in cui l'alpinista estremo si chiede: proseguo o torno indietro? In quell'istante sarà meglio che conosca molto bene se stesso.
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