Sguardi truci e piazzate con insulto annesso, è cominciata la terza stagione di MasterChef, il talent cooking di Sky, programma culto di tanti amici e colleghi. Non il mio. Anzi, l'estasi generale mi provoca la reazione opposta. Un rifiuto preventivo. Un rigetto, vien da dire. Questione di anagrafe, forse. Di formazione. Di cultura alimentare limitata. Spartana, forse. Fatico a digerire i cuochistar, gli chef stellati, il narcisismo da primato dei gourmet e dei critici gastronomici che spuntano dovunque, negli inserti speciali, nei promo e negli spot, nei trailer al cinema, nelle vetrine delle librerie, negli intervalli delle partite, nei salvascreen, nei monitor alle stazioni del metro, nelle classifiche librarie. È un'invasione, un bombardamento. Sono i nuovi guru, i profeti del presente. Non basta che insegnino nelle scuole a cucinare bene. Che illustrino i piatti ai clienti nei ristoranti. Che promuovano i libri di ricette. Sono anche il nuovo modello dei bambini. Secondo il recente rapporto Eurispes, da quest'anno il cuoco batte il calciatore e l'astronauta nelle preferenze di ciò che vogliono fare da grandi.
Dopo le prove del cuoco e i programmi per le massaie in carenza di idee per soddisfare le bocche dei familiari, i talent cooking sono un nuovo genere tv. E gli chef filosofeggiano, teorizzano, cavano antropologie da un risotto o da una mousse. A tutte le ore e su tutte le reti. «Non è solo un piatto, è una storia», ha detto l'altro giorno Joe Bastianich promuovendo una concorrente che aveva preparato qualcosa per emanciparsi dalla cucina troppo grassa della madre (bocciata dai tre giudici). «È un colpo di Stato», ha esultato la figlia vincente. Le iperboli si sprecano come lo zucchero a velo sui dolci della nouvelle cuisine. Una sarta marocchina piangeva a dirotto davanti ai giudici-profeti. Poco dopo uno di loro ha sputacchiato del cibo: «Questa pasta la mangi a letto quando sei malato. Il piatto è una merda totale». Avrà materiale su cui scatenarsi Maurizio Crozza.
Ma è davvero questo lo spirito del tempo? È Natale e le tavole s'imbandiscono del meglio. L'arrosto, il lesso, la mostarda e il mascarpone, il mandorlato e, perché no, i dolci siciliani e tutto il resto. A tutti piace mangiare bene, eccome. Anche scegliere con oculatezza il ristorante, o la trattoria emergente che fa tendenza. Ma la faccenda finisce lì. È l'orpello che stroppia. L'esagerazione. Forse è solo un fatto di pelle, di epidermide più o meno liscia. L'enfasi gastronomica, l'iperbole culinaria, il barocchismo delle ricette, le cerimonie dell'impiattamento. Più probabilmente è un fatto generazionale. Davanti ai nostri rifiuti schizzinosi della verdura, i genitori ci parlavano dei coetanei del Biafra. Abbiamo ancora negli occhi adesso le immagini dei bambini con la pancia prominente. Più prosaicamente, mio padre mi diceva: se non finisci la bistecca, oggi pomeriggio non metti il naso fuori dalla porta. Tutti finivano di mangiare, mia madre sparecchiava, rimanevo lì con la bistecca fredda. Mangiare era nutrizione, senza dimenticare la de-nutrizione. Causa crisi, ci stiamo riavvicinando a quella situazione. È per questo che l'enfasi stride. La decorazione, il ricciolo, l'erre moscia dell'involtino, la liturgia della besciamella, la scoperta di una ricetta come fosse del Sacro Graal. Non è moralismo, il buon cibo piace. Il buon cibo è sostanza, pensiero forte, tradizione, struttura. È quando diventa sovrastruttura, con termine marxista, che urta. A proposito, che dice la sinistra di tutto questo? Finora tace. La gauche ha la bocca piena di caviar? Si sa, con la bocca piena non si parla.
L'altra sera uscendo dalla stazione ferroviaria di Padova mi sono imbattuto in un gruppo di volontari con un frate che servivano la zuppa a dei barboni. Difficile entusiasmarsi per i concorrenti tremanti davanti agli sguardi dei cuochistar.
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