Cultura e Spettacoli

Raffaello, il genio che non fece di sé un'opera d'arte

Luca Nannipieri racconta il grande pittore a cinquecento anni dalla sua morte

Il "Baldassar Castiglione" di Raffaello Sanzio
Il "Baldassar Castiglione" di Raffaello Sanzio

Non ha ucciso nessuno, non si è fatto di droga, non ha avuto amanti prostitute, non è morto giovanissimo. Raffaello non ha nulla di biograficamente appetibile per risultare un artista blockbuster dei nostri tempi.

La pigra, pigrissima tendenza, oggi molto diffusa, di farsi attrarre soprattutto dagli artisti la cui esistenza è connotata da violenti chiaroscuri, grandi altezze e grandi sperdutezze, infami miserie e splendenti risarcimenti sotto forma di capolavori, come se la visione dell'arte dovesse essere continuamente dopata dal conoscere le esagerazioni compiute dall'artista, trova in Raffaello un punto di crisi, perlomeno di delusione.

La sua vita è trascorsa placidissima, al limite dell'irrilevanza. Oggi, frettolosi come siamo, diremmo che era un uomo qualunque.

Si può riassumere così, la sua vicenda, e tanto basta: «Rafael Johannis Santis de Urbino» nasce appunto a Urbino nel 1483 e muore a Roma nel 1520. In trentasette anni, l'artista ha dipinto: ha dipinto soltanto. Al massimo si è concesso il diversivo di essere, per poco tempo, architetto e versificatore. Sì, scriveva anche poesie, sonetti amorosi, sospiri.

Nulla più.

E questo, per il nostro spirito contemporaneo, è quasi una colpa, una mancanza. Niente risse, fughe, esili, clamori, eccessi, nessuna mistura di disperazione, vitalità e maledettismo che tanto ci piace negli artisti, ma che non vorremmo mai vedere nel nostro vicino di casa, che invece desideriamo tranquillo e posato.

Raffaello, in questo, è un artista deludente per la modernità, che infatti ha dovuto mitizzare altri artisti, tutti accomunati da una vita ribelle, smaniosa. Ha mitizzato, a metà tra la cieca idolatria e il feticismo più patologico, il genio di Caravaggio, Van Gogh, Amedeo Modigliani, Antonio Ligabue, Pablo Picasso, Salvador Dalí, Andy Warhol, Jean-Michel Basquiat, Francis Bacon, Piero Manzoni. Centinaia di mostre su di loro, produzioni cinematografiche, spettacoli teatrali, documentari, speciali televisivi in più puntate come fossero telenovele, hanno canonizzato le loro figure. Perché? Non perché, razionalmente, vengano ritenuti più importanti di altri, ma perché, secondo un luogo comune consolidatosi a danno di tutti, la loro vita sregolata ha finito per essere un ingrediente molto più eccitante della comprensione delle loro opere.

Le suggestioni attorno alla loro biografia sono la base ineludibile del loro mito. Non esisterebbe l'alone di divinizzazione attorno a Caravaggio, se la sua arte non venisse continuamente drogata dal continuo riferimento alla sua vita scellerata tra risse, omicidi e fughe. Van Gogh non sarebbe così celebrato, falsificato, rubato, richiesto, se non avesse avuto quell'esistenza così estrema, quel suo orecchio tagliato con un rasoio e recapitato nella casa di una donna, quello sparo di pistola che pone fine alla sua vita. Jean-Michel Basquiat non sarebbe una celebrità senza i fiumi di eroina nelle vene e la morte per overdose che arriva a ventotto anni. Salvador Dalí sarebbe conosciuto a malapena, alla stregua di surrealisti e affini come Breton, Aragon, Ernst, Delvaux, se non avesse avuto e creato sapientemente quella leggenda di sé stesso, tra estrosità, bizzarria e meditata follia («Io mi vesto sempre da Salvador Dalí, non mi umilio portando gli abiti dei comuni mortali»), che lo hanno reso una delle icone più riconoscibili dell'arte del Novecento.

La predilezione per lo stereotipo del genio tormentato, combattuto tra male di vivere e visioni celestiali, non riguarda soltanto l'arte: poeti come Charles Baudelaire, Arthur Rimbaud, Dino Campana, Gabriele d'Annunzio, Pier Paolo Pasolini, Alda Merini, attori come James Dean e Marilyn Monroe, cantanti come Jimi Hendrix, Kurt Cobain, Jim Morrison, sono diventati icone perché la loro vita non si è svolta da impiegato in un ufficio come quella del maggior poeta portoghese del Novecento Fernando Pessoa.

Beato Angelico ha realizzato capolavori inauditi ma avendo vissuto da mite religioso per tutta la vita, tra conventi, celle e predicazioni, come tutti i frati domenicani, rimane centrale nella storia dell'arte del Quattrocento, ma non si è creata mitologia popolareggiante sul suo nome.

La modernità ha cucito arte e sregolatezza in un intreccio indissociabile, relegando in posizione gregaria, di seconda fila, o in penombra, come fosse meno interessante, chi ha prodotto arte, anche altissima e sublime, ma senza essere protagonista di comportamenti patologici o devianze psichiatriche. (...)

Proprio per questo Raffaello, «Raphael Vrbinas», come si firma in alcuni lavori, è insipido per i cliché del nostro tempo: perché la sua grandezza artistica non è guarnita da rocambolesche avventure occorse in vita.

Studium et diligentia, studio e assiduità, nel senso di coscienziosità, di operosa diligenza, potrebbero essere le parole distintive di Raffaello.

Lo scrisse già Giorgio Vasari, nelle sue Vite dei più eccellenti pittori, scultori e architetti.

Il capitolo su Raffaello sembra l'esatta fotocopia delle parole fin qui dette, solo che le sue parole sono di quasi cinque secoli fa: gli «artefici» (li chiama artefici, non artisti, parola sconosciuta allora), in gran parte, avevano dalla natura «un certo che di pazzia e salvitichezza» e, oltre a essere «astratti e fantastichi», avevano in loro «l'ombra e lo scuro de' vizii» più che «la chiarezza e splendore di quelle virtù che fanno gli uomini imortali».

Insomma anche per Vasari caratteristiche comuni degli artisti erano la pazzia e la «salvitichezza». Al contrario in Raffaello risplendevano «tutte le più rare virtù dell'animo accompagnate da tanta grazia, studio, bellezza, modestia et ottimi costumi».

Insomma un brav'uomo, la cui vita oggi farebbe annoiare anche il più predisposto dei lettori di biografie d'arte, abituati come siamo a leggere le storie solo quando sono avventurose e piratesche.

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