Cultura e Spettacoli

Il realismo più che surreale dei quadri di Sergio Ceccotti

Una mostra a Roma per rivivere le atmosfere cariche di inquietudine ed erotismo del pittore

Il realismo più che surreale dei quadri di Sergio Ceccotti

All'inizio degli anni ottanta l'ormai anziano Philippe Soupault il grande poeta francese che, insieme a Louis Aragon e ad André Breton aveva fondato la rivista surrealista Littérature ed era stato, con Tristan Tzara, uno degli esponenti del dadaismo scrisse, in un saggio dedicato al pittore italiano Sergio Ceccotti, di aver riscoperto, attraverso le opere di questo artista, «il teatro dei suoi sogni». Aggiunse che Ceccotti era un esploratore dell'«insolite quotidien» alla ricerca, come avevano fatto i surrealisti da Max Ernst ad André Masson fino a Juan Miro, delle tracce del mistero. La definizione di «esploratore dell'insolito quotidiano» è suggestiva e, certo, calzante, ma il riferimento all'ambiente, culturale e artistico, del surrealismo è limitativo perché il contatto di Ceccotti con il surrealismo è, a mio parere, solo tangenziale nella misura in cui evoca non tanto una dimensione onirica quanto piuttosto il fascino e l'ambiguità dell'ignoto che avvolge la quotidianità. Soupault aveva conosciuto a Parigi verso la metà degli anni settanta l'artista romano, che, già allievo di Oskar Kokoschka a Salisburgo, aveva seguito corsi di disegno all'Accademia di Francia a Roma, effettuato viaggi di studio in Germania e in Austria e si era già fatto apprezzare negli ambienti internazionali. Fra i due nacque un profondo legame di simpatia e amicizia, che consentì all'artista romano di coltivare relazioni con esponenti di punta del mondo culturale francese al punto che proprio a Parigi ottenne i primi significativi riconoscimenti e organizzò le prime importanti mostre.

Tuttavia, più che il surrealismo, in Ceccotti operavano, già, altre suggestioni: il neocubismo, per esempio, o la pittura metafisica di De Chirico ovvero, anche, l'espressionismo tedesco quale si era sviluppato a partire dagli anni Venti. Per non dire, poi, di motivi riconducibili alla poetica del «ritorno all'ordine» o di «Valori Plastici» e della «scuola romana». Il percorso intellettuale e pittorico di Ceccotti che ha celebrato lo scorso anno i sessanta anni di attività artistica con una rassegna antologica al Palazzo delle Esposizioni di Roma e che ha appena inaugurato una mostra dedicata a Roma presso la Fine Art Gallery (Piazza di Pietra 28, Roma) è stato assai articolato fino a giungere a quella particolare dimensione figurativa che ne carica la pittura, realizzata con perizia quasi calligrafica, di atmosfere metafisiche, attese inquietanti, interrogativi problematici.

L'approccio storico è fondamentale, nel caso di Ceccotti, proprio per evitare fraintendimenti o semplificazioni classificatorie suggerite, allusivamente, dalle sue stesse opere. Che, a uno sguardo superficiale, parrebbero essere frutto di un figurativismo neo-manieristico o iper-manieristico. Cosa che, in realtà, non è.

Ceccotti, infatti, è un artista profondamente colto, di una cultura classica e contemporanea al tempo stesso, che recupera e fa proprie le tematiche delle avanguardie storiche inserendole in contesti attenti alla «cultura di massa» dei nostri tempi.

Ci sono nei suoi quadri i richiami di una letteratura contemporanea, italiana e straniera, sensibile ai misteri e alle inquietudini odierne: Georges Perec, Patrick Modiano, Antonio Tabucchi, Paul Auster e via dicendo. Per non dire degli echi, a livello di atmosfere, di taluni autori della narrativa poliziesca americana del genere urbano e noir come Dashiell Hammett o Raymond Chandler. E poi, ancora, certe suggestioni provenienti dal cinema d'autore a cominciare dalle ambientazioni sospese e angosciose di un Alfred Hitchcock e, persino, dalla letteratura popolare e dal mondo dei fumetti come Diabolik evocatori, cioè, di incubi o paure proprie della nostra epoca.

La pittura di Ceccotti, insomma, si presenta quasi come punto di decantazione della creatività artistica in tutte le sue manifestazioni. I temi prediletti sono squarci interni di case prevalentemente parigine o romane, panorami urbani, vie e piazze alle prime luci dell'alba o sul far della sera, scene di vita cittadina animate dallo sferragliare dei tram e dalle metropolitane oltre che dalle autovetture, sguardi indiscreti nell'intimità di una stanza attraverso i vetri di una finestra.

Non mancano le presenze umane, spesso enigmatiche, come nel caso di taluni individui, elegantemente vestiti, dall'atteggiamento assorto o furtivo che lascia spazio all'immaginazione. O come nel caso di donne al balcone o in poltrona o sedute davanti a un computer in posture che sollecitano un impalpabile e sottile erotismo.

La prima impressione suscitata dalle opere di Ceccotti è quella di una pittura figurativa al limite estremo del virtuosismo quasi fotografico. Ma si tratta di una falsa impressione dal momento che, a uno sguardo approfondito e in seconda approssimazione, le scene raffigurate sulle tele appaiono meno realistiche perché evocano situazioni cariche di suspense, atmosfere inquietanti e angosciose.

A proposito di tali opere è stata richiamata la pittura di Edward Hopper, il grande interprete e cantore della solitudine nella vita americana contemporanea, quasi che Ceccotti possa, in un certo senso, essere visto come un Hopper italiano o, se si preferisce, italo-francese. Proprio qualche anno fa, a Parigi, in occasione di una grande rassegna hopperiana al Gran Palais, venne organizzata una sessione di studio che metteva a confronto le poetiche e le tecniche dei due artisti. Che siano rintracciabili motivi se non di affinità quanto meno di vicinanza espressiva e tematica, oltre che culturale, fra i due è fuor di dubbio.

In entrambi è riscontrabile, per esempio, il peso della tradizione culturale europea filtrata dai soggiorni parigini e dall'attenzione alle avanguardie storiche, in particolare alla lezione del cubismo. E, in entrambi, è presente una comune passione per il cinema inteso come forma di espressione artistica. Ma, al netto di tutto questo, ci sono differenze profonde e sostanziali e non soltanto perché soggetti principali delle loro opere sono, nel caso di Hopper, la provincia rurale americana e, nel caso di Ceccotti, la giungla urbana di Parigi e di Roma.

L'artista statunitense, infatti, immortala sulla tela il silenzio e l'incomunicabilità fra gli individui, laddove l'italiano, da parte sua, esplora i confini del mistero e delle angosce quotidiane proponendosi, per riprendere la pregante definizione di Soupault, come un «esploratore dell'insolito quotidiano».

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