Cultura e Spettacoli

Il regime fascista? Fu una rivoluzione non conservatrice

Renzo De Felice per primo studiò a tappeto anche i documenti del Ventennio. E arrivò a conclusioni "eretiche" per la sinistra

Il regime fascista?  Fu una rivoluzione non conservatrice

In uno dei suoi ultimi corsi universitari era il gennaio 1991 Renzo De Felice, raccontando agli studenti come e perché aveva cominciato a interessarsi di fascismo, parlò del proprio stato d'animo di studioso alle prime armi. Si era ritrovato ad ascoltare dai suoi maestri discorsi carichi di passionalità e a leggere opere che sembravano, tutte, scritte da una generazione troppo partecipe degli eventi. Gli era sembrato di assistere non a un dibattito storiografico ma a un confronto tra posizioni personali: «Ricorderò sempre che a me giovane neolaureato, che cominciava a muoversi in questo ambiente di studi storici la discussione sulla prima guerra mondiale (dalla quale discendeva poi la discussione sul fascismo) apparve come una discussione fra protagonisti. Sembrava che ci si trovasse nella stessa situazione del 1914-1915. Anche studiosi di notevole statura cercavano, sì, di trovare addentellati di tipo storico, ma in realtà discutevano come avevano discusso fra loro nel 1914-1915. Erano tipici fino ad apparire a noi più giovani, che li ascoltavamo, quasi come macchiette due storici, Luigi Salvatorelli e Piero Pieri, uno neutralista giolittiano, l'altro interventista democratico. Le loro discussioni assumevano subito toni estremamente eccitati, che, per un verso, spiegano l'impatto che ancora avevano certi problemi e quanto erano tuttora sentiti, e, per un altro verso, mostrano il collegamento che più o meno correttamente, non nella sostanza ma nella forma, veniva stabilito fra le vicende della prima guerra mondiale e il sorgere del fascismo in Italia. Ma, al di là di questo, quelle discussioni mostravano l'impossibilità di fare effettivamente la storia di un periodo non ancora concluso: a quell'epoca la prima guerra mondiale era finita da decenni e anche la seconda si era conclusa, il fascismo e il nazismo erano stati sconfitti, tuttavia non si poteva dire che, nella seconda metà degli anni quaranta e negli anni cinquanta, il periodo storico che aveva caratterizzato l'Europa, oltre che l'Italia, per trenta e più anni, fosse un periodo concluso». La nascita della nuova Italia, democratica e antifascista, costruita sul mito legittimante dell'«unità della Resistenza» a guida comunista, non aveva segnato, se non in apparenza, la chiusura di un ciclo storico: del fascismo non era lecito né opportuno parlare se non in termini generali e con un giudizio aprioristicamente negativo. La voglia di conoscere la verità aveva spinto il giovane storico a dedicarsi allo studio della vicende contemporanee che ancora facevano discutere i suoi maestri. Del fatto che l'impresa non fosse facile egli era consapevole come, ancora, ribadì ai suoi studenti in quella ricordata conversazione: «Credo che sia inevitabile che un periodo storico non possa essere visto dai contemporanei, da coloro che lo hanno vissuto anche quando si tratta di storici di grande valore in una prospettiva effettivamente di tipo storico. Finché il periodo non è chiuso, finché non si è aperta una nuova fase storica, è molto difficile affrontare certi problemi con quel minimo di oggettività che, bene o male, è sempre necessario per chi voglia fare storia, per chi voglia affrontare la ricostruzione in termini storici della realtà di un periodo e quindi offrirne una spiegazione in termini storici».Quando cominciò a interessarsi di fascismo De Felice fu subito guardato con sospetto. Come era mai possibile che un giovane studioso volesse affrontare un tema tabù, come quello del fascismo, del quale, in fondo, non si poteva e non si doveva che dir male? Come era possibile, poi, che egli decidesse, per la prima volta, di prendere in considerazione documenti archivistici, memorie, materiali, insomma, ufficiali di parte fascista? Queste domande, retoriche all'apparenza, erano, in realtà, il frutto di una mentalità antistorica, cresciuta e cullata all'insegna dell'ideologia, una mentalità che rifiutava l'idea stessa che il fascismo, «male assoluto», potesse essere preso in considerazione come un «problema storico». De Felice, come avrebbe ricordato Piero Melograni, pur vivendo in un paese nel quale «egemonizzavano il mondo della cultura» ebbe «la fortuna di non vivere in una nazione comunista, altrimenti non sapremmo quale sarebbe stato il suo destino»: del resto soltanto l'intervento nel momento di più intensa aggressione mediatica e politica alle sue tesi, in particolare quelle sul «consenso» del paese al fascismo di un comunista della statura di Giorgio Amendola lo salvò da un vero e proprio linciaggio. Eppure, sempre per usare le parole di Melograni, il fatto stesso di «vivere in una nazione fortemente ideologizzata rese il suo lavoro difficile e al tempo stesso appassionante» dandogli, in un certo senso, «la soddisfazione di comportarsi come un eroe della verità in un mondo in cui questi eroi erano davvero pochi». Per la prima volta, suscitando scandalo, De Felice utilizzò, quei documenti di parte fascista che i sostenitori della «vulgata» ritenevano «intoccabili». Pur sottoponendoli al vaglio critico proprio di uno studioso cresciuto sui banchi della grande storiografia italiana, De Felice ne sostenne la rilevanza nella presunzione che per capire un fenomeno storico fosse necessario analizzarlo «dall'interno» e non guardarlo con le lenti della ideologia. Tale approccio consentì a De Felice di leggere criticamente tutta la precedente letteratura storiografica sul fascismo. Ma gli consentì, anche, di giungere a conclusioni, ormai generalmente acquisite, sul collegamento, per esempio, fra la genesi del fascismo e lo sconvolgimento, non soltanto politico ma anche morale e psicologico, provocato dalla Grande Guerra. E gli consentì, ancora, di far capire come e perché il consenso al regime oltre che al suo capo sotto forma di «mussolinismo» abbia potuto radicarsi e durare a lungo. Uno dei punti emersi dal lavoro di De Felice e, comprensibilmente, irritante per l'egemonica cultura storiografica gramsci-azionista, fu proprio sulla base dell'analisi della fenomenologia del consenso la conclusione che il fascismo rappresentava un tipo di regime diverso rispetto a quelli conservatori e autoritari. Questi ultimi, infatti, avevano sempre teso a demobilitare ed escludere le masse dalla partecipazione attiva alla vita politica «offrendo loro dei valori e un modello sociale già sperimentato nel passato» cui veniva «attribuita la capacità di impedire gli inconvenienti e gli errori di qualche recente parentesi rivoluzionaria». Il fascismo, invece, puntò a suscitare in esse «la sensazione di essere costantemente mobilitate, di avere un rapporto diretto con il capo (tale perché capace di farsi interprete e traduttore in atto delle loro aspirazioni) e di partecipare e contribuire non a una mera restaurazione di un ordine sociale di cui sentivano tutti i limiti e l'inadeguatezza storica, bensì a una rivoluzione dalla quale sarebbe gradualmente nato un nuovo ordine sociale, migliore e più giusto di quello preesistente e, soprattutto, mai sperimentato prima».

Conclusioni innovative, certo, e storiograficamente rivoluzionarie ma inoppugnabili.

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