Requiem per il comunismo cantato da un ex comunista

«Il Muro che cadde due volte» archivia il passato e pone una domanda: il liberalismo sta facendo il suo dovere?

Requiem per il comunismo cantato da un ex comunista

B rutta cosa, o bella, se piacciono le sfide, aver scoperto definitivamente il liberalismo nel 1989, come racconta Antonio Polito in Il Muro che cadde due volte (Solferino). Il 1989, anno del crollo del Muro di Berlino, segna la fine del comunismo ma anche l'inizio della crisi del liberalismo. Il mercato, un sistema per fissare i prezzi, diventa una religione alla quale tutto sacrificare. Il liberalismo, come protezione dalle ingerenze dello Stato, declina a causa di un equivoco di fondo. La democrazia non coincide con il liberalismo, ci sono state monarchie assolute dove il livello di controllo dei cittadini era infinitamente inferiore a quello attuale in Occidente. Non per caso uno dei classici del pensiero liberale, firmato da Hans-Hermann Hoppe, si intitola Democrazia: il dio che ha fallito. L'Occidente invece si è abbandonato al sogno che la democrazia fosse un sistema perfetto, e oggi abbiamo sotto gli occhi, quasi ovunque, neppure la tirannia della maggioranza deprecata da Tocqueville ma addirittura quella dei peggiori. Ma la democrazia è solo una procedura per cambiare chi sta al potere senza doverlo decapitare. Nient'altro. Dal punto di vista morale, l'elogio della avidità «positiva», che produce ricchezza per tutti si è trasformato in elogio della avidità punto e basta. Alla geniale figura dell'imprenditore-innovatore descritta da Schumpeter, è subentrata quella del prenditore amico della politica e del Ceo premiato con milioni sonanti perfino quando conduce le aziende alla rovina. Nel 2008, con la crisi dei subprime, crolla il secondo Muro, quello della «eterna» prosperità ottenuta moltiplicando denaro inesistente nell'economia reale. Volendo si può anche continuare: la globalizzazione, inevitabile conseguenza del liberismo, ha dato frutti deludenti. È vero che possiamo degustare il mondo alla carta, un tocco di cucina indiana qua, un telefonino cinese là. Ma abbiamo buttato via un po' troppo alla svelta lo Stato nazionale, l'unico che storicamente abbia tenuto insieme un sistema di protezione sociale, chiamato Welfare. L'unico che potrebbe opporsi a sconsiderati flussi di immigrazione utili solo agli schiavisti. L'unico in grado di preservare e valorizzare le differenze tra popolo e popolo. Anche per questo i liberali oggi chiedono, forse utopicamente, economia globale e potere locale, anche se all'interno di una logica più «regionale» e scissionista che «nazionale».

La sinistra quindi ha sbagliato sempre. Prima nell'essere comunista e poi nel convertirsi a una versione degenerata del liberalismo, quella che abbiamo sotto agli occhi da troppo tempo. L'errore sta a monte: la credenza superstiziosa nel progresso, il relativismo morale che non permette di gettare fondamenta solide. Per questo il capitalismo virtuoso ha retto solo fino a quando ha avuto la pistola alla tempia dell'Unione Sovietica. Col nemico alle porte non si potevano tollerare sprechi o furti o truffe colossali e una classe politica inetta. Il valore della libertà era evidente a tutti coloro avessero un'atomica sovietica puntata contro. Quando il nemico si è suicidato, anche il capitalismo ha iniziato a sentirsi poco bene. Peccato non ci sia comunque di meglio, per garantire almeno un minimo di rispetto dell'individuo.

Sono riflessioni innescate dalla lettura del saggio di Polito, la sincera e difficile ammissione di un doppio fallimento. Passata dal comunismo al liberalismo, la generazione di Polito ha dovuto sperimentare il peggio dell'uno e dell'altro. Il precipitato del peggio di entrambi è l'attuale Unione europea, ennesimo sogno infranto. Una struttura imperiale e antidemocratica. Ma il brutto è che si tratta di un impero con un singolare imperatore chiamato «euro». Per la prima volta, siamo dominati direttamente da una moneta...

Probabilmente, l'autore del libro non sarà d'accordo con molte delle cose affermate in questo articolo, a partire dalla completa sfiducia nell'Europa. Il grande merito di Polito è di stimolare un dibattito inesistente in Italia a causa di un conformismo che ha fatto scivolare la nostra cultura nell'irrilevanza. Di diverso tenore è il confronto in altri Paesi. Senza andare lontano, basta fare un salto a Parigi. I temi che Polito affronta con rigore (e con una coinvolgente vena autobiografica) sono un tabù. Infatti in Italia non esiste alcun dibattito: o canti le lodi del socialismo umanitario, ultima moda delle persone sedicenti colte, o sei un fascista, razzista, omofobo, xenofobo, islamofobo e sicuramente altro che ora scordo. Da noi «reazionario» o «conservatore» sono insulti. Altrove i pensatori sono reazionari o conservatori e se ne vantano.

Sarebbe bello se intorno a un libro così stimolante (anche se non è necessario essere d'accordo con l'autore, come in tutti i saggi interessanti) nascesse una discussione sensata. Ma siamo già rassegnati ad assistere all'ennesima occasione sprecata.

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