di Barbara Frale
Perché sì: mea culpa! Di sbagli ne aveva commessi, Lorenzo de' Medici. Errori di valutazione sul denaro e le persone, calcoli malfatti per arroganza, per leggerezza, orgoglio e ambizione smodata. Ne portava addosso tutta l'immensa responsabilità, e ora la vita gliene chiedeva il conto.
Era diventato un uomo incapace di provare pietà, un despota che sfogava la sua rabbia in una ridda di rappresaglie capaci di spargere il terrore nelle vie di Firenze. Processi sommari, impiccagioni in piazza della Signoria, agguati, vendette condotte a porte chiuse su coloro che avevano la propria parte di peccati da scontare, ma non potevano cadere per mano dei Medici senza che il popolo insorgesse levandosi contro Lorenzo e l'intera sua famiglia.
Tiranno, lo chiamavano ora; solo poche settimane prima, era il grande mecenate delle arti, l'araldo della Signoria. Il primo cittadino. L'orgoglio di Firenze.
Si pentiva della sua dabbenaggine, di come aveva ostinatamente tenuto gli occhi chiusi su tanti segnali d'avvertimento che pure la vita e i suoi amici gli avevano inviato. E soprattutto, si pentiva di aver ceduto alla più diabolica delle lusinghe: la seduzione del potere.
Lo sguardo corse inesorabile a quel punto della navata dove s'era compiuto l'atroce misfatto. Lorenzo rivide Giuliano seduto poco distante da lui, nel corno opposto del coro. Così doveva essere: l'uno e l'altro dei fratelli Medici presidiano il Duomo, solidi e fermi come possenti torri agli angoli di una scacchiera. Chi non avrebbe subito compreso il vero peso della famiglia nella città, già notando quale seggio veniva riservato loro in cattedrale?
Il giovane cardinale Raffaele Riario celebra messa sull'altare maggiore. Sembra ridicolo, così paludato in tanto sontuose vesti talari, lui che alle soglie dei diciassette anni coltiva fiero la prima barba convinto che gli dia autorevolezza e un'aria più matura. Solleva l'ostia, il cardinale bambino, sta di spalle e nulla vede di ciò che intanto accade dietro di lui. Tutti s'inginocchiano, è il momento più solenne del rito: e proprio allora, come un demone sbucato fuori dall'imbocco dell'inferno, Francesco de' Pazzi aggredisce Giuliano e lo accoltella selvaggiamente. Una, due, tre volte. Ha così tanto odio in corpo che nella furia di trapassare l'altro senza dargli scampo ferisce persino sé stesso e perde sangue da una gamba. Ce ne vuole prima che gli altri, esterrefatti, si rendano conto di cosa è successo. E allora è un cataclisma di urla selvagge che rimbombano ovunque. Le volte profonde amplificano quelle grida, i passi furiosi di mille piedi e il clangore di armi sguainate che si scontrano con ferocia.
Lorenzo ricordava solo poche immagini della tragedia. Lo scintillio di una lama che gli sfiora il volto, un dolore atroce al collo: si porta la mano alla gola, la vede intrisa di sangue. Dieci compagni sono su di lui, lo spingono via lontano dal pericolo, mentre egli invoca il nome dei suoi. Sono rapidi a buttarlo in sagrestia, fanno muro davanti a lui, il Poliziano chiude i pesanti battenti in faccia agli aggressori. Ma un attimo prima che quelle ante lo mettano in salvo, Lorenzo vede. Vede l'amico Nori stramazzare a terra per avergli fatto scudo col proprio corpo: spira quasi subito, ha lo stomaco forato dai colpi di pugnale. Vede Giuliano in una pozza di sangue. Giuliano lontano da lui, perduto, esanime, abbandonato da tutti, anche da Dio.
E dopo il giorno del sangue, erano venuti quelli del furore. Con rabbia cieca Lorenzo s'era vendicato dei suoi nemici in modo esemplare, ordinando funerali pubblici per suo fratello, e costringendo la Signoria a considerare la sua morte come un delitto contro lo stato. Anche quelle immagini erano impresse nella memoria a lettere di fuoco: il vescovo Salviati, maledetto Salviati!, Che penzola fuori da una finestra del Palazzo della Signoria. Indossa ancora i paramenti sacri, ha gli occhi sbarrati che sembrano chiedersi increduli in cosa mai abbia sbagliato. E Francesco de' Pazzi, e Salviati, e gli altri luridi sciacalli che si sono alleati per compiere quella carneficina, tutti divenuti pasto di corvi e avvoltoi, esposti al ludibrio sulla pubblica via.
Quello era l'ultimo giorno di primavera; ma una primavera che a Firenze s'era orribilmente tinta di sangue.«I tuoi nemici sono caduti uno dopo l'altro», disse il frate. «Ti senti appagato dalla vendetta?» «Non tutti sono morti. Mancano i più infami».
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